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Raccontare la violenza di genere da una prospettiva maschile.

Questa settimana Venere 50 vi propone una breve intervista a Mario Ferrari, manager e imprenditore di 58 anni, che ha lavorato per molti anni nel settore delle figurine collezionabili e che dal 2016 si occupa di tecnologie per la collaborazione. Coltiva numerosi hobby, tra cui lettura, cinema, cucina, musica, viaggi e robotica. Il suo passatempo più recente e a cui dedica più tempo è la scrittura di romanzi.

 

 

Hai scritto un romanzo nei quali i protagonisti sono ragazze e ragazzi che vivono importanti esperienze come l’amicizia, l’amore, la diversità di genere. Perché hai deciso di scrivere  per giovani lettori?

 

In realtà il romanzo non è ancora stato pubblicato, e nemmeno sottoposto agli editori, perché è un progetto narrativo complesso ed è ancora in lavorazione. La mia intenzione non è quella di scrivere romanzi per adolescenti, ma romanzi per tutti, in cui i protagonisti sono adolescenti. Se si eccettuano i romanzi/film di genere horror o fantascienza (IT, Stranger Things, E.T.) non ci sono esempi che assomiglino a ciò che sto cercando di fare. Normalmente nelle storie per adulti vengono impiegati ragazzi quando si ha a che fare con il soprannaturale o lo straordinario, perché il lettore/spettatore adulto sa che i giovanissimi hanno meno pregiudizi e accetta che siano disposti a credere a ciò che invece gli adulti rifiutano.
Nel mio progetto, invece, ho scelto gli adolescenti per l’idealismo che quell’età rappresenta. La vita ha abituato noi adulti alla mediazione, al compromesso, ad accettare come “normali” o “inevitabili” cose che non dovrebbero esserlo. I miei protagonisti non sono esenti da dubbi, insicurezze, paure, difficoltà nelle relazioni personali… ma hanno una visione netta di ciò che ritengono giusto e sbagliato, e sono disposti a spendersi personalmente per quello in cui credono, a costo di mettersi in pericolo.
Gli adolescenti sono davvero così? Io credo di sì, anche se sicuramente non tutti. Esiste una bella fetta di ragazzi le cui uniche battaglie sono quelle per ottenere più libertà dai genitori, ma ne ho conosciuti parecchi che hanno le caratteristiche che racconto. Io ero uno di loro.

 

Nel tuo romanzo hai deciso di trattare nella sua complessità la violenza di genere con particolare attenzione allo stupro e alla violenza nella relazione d’intimità. Perché hai deciso di narrare un tema così complesso in un romanzo in cui i protagonisti sono adolescenti?

 

Con questo loro idealismo, a volte anche un po’ ingenuo, ma per questo candido, i miei protagonisti si confrontano con le sfide che il mondo gli pone. La violenza di genere è uno di questi.I ragazzi ne sanno poco, ma dato che due di loro (una coppia) ne diventano vittima, sono costretti a farci i conti. Mentre i loro genitori si affidano alla polizia, e tutto ciò che fanno è quello di mettere pressione alle forze dell’ordine, i giovani amici delle vittime sentono il desiderio di fare qualcosa personalmente, soprattutto per impedire che lo stesso stupratore seriale faccia del male ad altre persone. Con caparbietà e intelligenza, con le loro diverse personalità che si completano, e soprattutto con la forza della loro amicizia alla fine ci riusciranno.
Durante il lungo percorso che li porterà alla soluzione del caso avranno modo di comprendere meglio il fenomeno della violenza di genere, al tempo stesso imparando qualcosa di se stessi e dell’età adulta che li attende.
Ho scelto questo tema perché credo che il romanzo – che ha i colori dell’avventura, del giallo, del thriller – sia una buona occasione per “contrabbandare” al lettore informazioni autentiche sulla sconcertante realtà della violenza di genere.

 

*So che per poter descrivere dettagliatamente il fenomeno della violenza nella relazione d’intimità hai avuto diversi incontri con donne vittime di maltrattamenti. Come ti sei approcciato emotivamente a questa realtà trasversale e diffusa? Hai maturato convinzioni che non avevi prima?

 

Dire che questa esperienza mi abbia cambiato è un eufemismo molto riduttivo: mi ha letteralmente stravolto. Prima degli incontri con Paola Vigarani – la counselor che mi accompagnato in questo difficile viaggio – e con le vittime dei maltrattamenti avevo iniziato la preparazione del romanzo leggendo diversi saggi che trattano del fenomeno. Ma leggere i numeri, le statistiche, i resoconti riportati da altri – per quanto crudi – è molto diverso dal rendersi conto, dal toccare con mano questo fenomeno così pervasivo.
Cambia la distanza, e quindi il coinvolgimento. Ciò che dalle pagine di un libro mi sembrava lontano e astratto, è improvvisamente diventato vicino e tangibile. Scoprire che ci sono vittime e carnefici che vivono o lavorano a poche centinaia di metri da casa mia ha dato un senso completamente diverso alla mia percezione della violenza sulle donne, la stessa differenza che c’è tra vedere un colpo di pistola in TV o trovarsi davanti a una persona a cui hanno sparato (cito questo esempio non ha caso, perché a me è capitato).
Ciò che prima era indignazione razionale, è diventata partecipazione emotiva. È difficile da raccontare, ho pianto molte lacrime, e ancora oggi mi commuovo al pensiero di quei racconti.
Inoltre, la maggiore comprensione del fenomeno mi ha fatto riconoscere episodi di violenza di genere anche in persone che conosco personalmente e che mi sono molto vicine.
Ho finalmente aperto gli occhi.

 

Quando si parla nello specifico di violenza di genere, spesso ci si accorge di come il fenomeno sia ancora oggi fortemente stereotipato. Come hai fatto a descrivere dinamiche comportamentali e psicologiche del carnefice e della vittima senza cadere nel pregiudizio?

 

Anche io ero vittima dei miei pregiudizi. Probabilmente lo siamo tutti, su ciò che non consociamo veramente.
Non dei pregiudizi più comuni e più gretti, non ero tra quelli che sostengono che una donna “se l’è cercata” perché vestiva in un certo modo o perché ha frequentato luoghi dove non avrebbe dovuto andare. Però ero vittima del pregiudizio che la violenza sia quella fisica delle percosse e dello stupro, mentre mi sfuggiva la gravità e la diffusione della violenza psicologica, di cui coglievo la presenza ma non l’utilizzo strumentale alla sottomissione.
Nel romanzo ho cercato di smantellare i pregiudizi ricorrendo, il più possibile, ai racconti delle donne che si sono confidate con me e delle consulenti che mi hanno aiutato a comprendere queste dinamiche. Alcuni passaggi del libro, alcuni dialoghi, alcune delle situazioni raccontate sono resoconti autentici di situazioni realmente vissute, che spero di essere riuscito a rendere con la forza emotiva che hanno trasmesso a me.

 

Quali sono le tue riflessioni e i tuoi progetti concreti per contrastare la violenza di genere?

 

Se c’è una lezione che ho appreso in 58 anni di vita, forse la più importante in assoluto, è che “far cambiare gli altri” è un obiettivo irrealistico e sbagliato, e tra l’altro ci fa sentire esenti da responsabilità. Gli unici su cui possiamo realmente agire siamo noi stessi.
In primo luogo, quindi, voglio impegnarmi a essere un compagno migliore per la donna che mi sta accanto da più di trent’anni. Non credo di aver mai fatto nulla di “grave”, ma quando ci si conosce bene è facile imparare a ferire, a colpire nei punti deboli dell’altro, magari solo per averla vinta in una discussione. So di averlo fatto, qualche volta, e se riuscirò a non farlo più sarò un esempio migliore per i miei figli e per le persone che mi stanno intorno. Non si tratta di abdicare alle proprie convinzioni e di diventare soggetti passivi di una relazione, ma solo di confrontarsi in modo leale.
Quando ci saranno occasioni di confronto con i miei “colleghi” maschi, utilizzerò la mia nuova consapevolezza per aiutare anche loro a vedere le cose in modo diverso. Stessa cosa verso quelle donne che ancora credono che a loro non possa capitare e che quelle a cui succede devono avere sicuramente una parte di colpa.
C’è tanto lavoro da fare, e perfino un romanzo potrebbe aiutare. Farò in modo di renderlo meritevole di pubblicazione.