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Sono tantissime le donne che ci raccontano le loro esperienze, le difficoltà, ma anche i successi in una società in cui uomini e donne posseggono gli stessi diritti, ma non le stesse opportunità, non solo in famiglia, ma anche nel lavoro e nella vita sociale. Venere50 ha scelto alcune di loro ed ad ognuna di esse ha chiesto di raccontare la loro storia.
Questa settimana Paola Vigarani ha incontrato Cinzia Marchetti, 52 anni.

 

 

Cinzia cosa significa per te essere madre di un figlio disabile?

 

Essere madre di un figlio disabile comporta una ripianificazione totale della propria vita, ma non solo. Si viene smembrati mentalmente e fisicamente e poi ricuciti alla meglio. Quest”ultimo passaggio lo si fa il più delle volte da soli, alla Rambo. Ci si ritrova feriti e malandati, soprattutto nell’anima. Tutto viene percepito in maniera differente da prima. Ma prima di che…quasi non ci si ricorda più. Si diventa madri disabili di figli disabili insomma. Non so se è così per tutti i genitori che approdano a questa condizione, ma per me lo è stato: un salto mostruoso dal mondo normale ad uno parallelo, dove i ritmi cambiano, le frasi si alterano, le lacrime infinite si perdono. Dove il buio inghiotte. E improvvisamente ci si rende conto che si è diventati “gli altri”, quelli a cui si guardava con pena, dispiacere, anche timore. Perché sì, la verità è sempre quella: la disabilità e la diversità spaventano.

 

Come si cerca di reagire a questo “dopo”?

 

Quando diventi protagonista di questa brutta fiaba non puoi più avere paura. Dopo un primo periodo di smarrimento ci si ritrova in piedi, zoppicanti sì, ma determinate a iniziare la lotta. In realtà è una vera e propria guerra, ma si è talmente annebbiati dal dolore che non si ha realmente la percezione che d’ora in poi ogni singola conquista costerà lacrime e incessanti agonie. Sapere di aver fabbricato nel nostro grembo una creatura imperfetta, ci dilania, ci fa pensare di essere difettose e sbagliate. Si perde consapevolezza del proprio io, ci si deve ricostruire.
Subentra poi la rabbia. La rabbia di non essere davvero comprese, la rabbia di non poter svenire e rinvenire il giorno dopo, la rabbia di non poter chiedere aiuto più di tanto perché questa dimensione ti viene affibbiata senza sconti, perché hai scelto (dopo una diagnosi incerta nel mio caso) di mettere comunque al mondo tua figlia. Tutti ti fanno sentire doppiamente responsabile, anche senza dirlo apertamente.
E poi arriva il crollo, ma ci si sente in colpa anche per questo. Ho avuto momenti davvero bui in cui avevo il cuore nero, bruciato di morte, ma dovevo occuparmi di lei e mostrarmi lucida (e anche sorridente per assurdo) per essere credibile e per non interrompere tutto il percorso che a tastoni e vari tentativi si cercava di delineare per lei. Mi è mancato molto un nido ovattato, insonorizzato, dove poter riposare la mente, da sola, dopo aver espresso le mie fragilità e le mie debolezze, avvolta da affetto e protezione. Invidio chi ha potuto farlo. E provo ensi di colpa anche per mio figlio maggiore, che non sono più riuscita ad accompagnare e seguire nella crescita e nello studio come avrei voluto, perché più cresceva sua sorella e più si palesavano problemi ed io non ero in grado di dividermi. A lui devo le mie scuse più grandi. Ha i suoi macigni nel cuore, ma ora sta diventando un uomo e spero che un giorno possa comprendere.

 

Come va oggi?

 

Sono passati ormai 20 anni da quel giorno e se mi guardo indietro vedo una donna che per tanti anni spesso ha dovuto allinearsi ad una normalità che non le calzava più e che non desiderava. O meglio: desiderava un mondo normale che le venisse incontro, che le permettesse di conservare un po’ di sana libertà, di ritrovare un po’ se stessa senza dovere essere la sola ad essere sempre sul “pezzo”. Ora sono separata da 5 anni e da sola organizzo, raccolgo, prendo informazioni, mi adopero per realizzarle una vita e un futuro senza di me, perché accadrà, inevitabilmente.. È un delirio. Era un delirio anche prima effettivamente, ma ora sono cresciuta , diciamo pure invecchiata. E alla soglia dei miei 53 anni, ho maturato un po’ di saggezza, ma anche un po’ di fottuto menefreghismo, in cui ho realizzato che essendo tutti di passaggio su questa terra, si deve vivere al meglio senza farsi troppo scalfire da frasi o atteggiamenti.

La burocrazia e le leggi non aiutano, anzi, inchiodano al muro donne come me. Ma poi c’è che mi schiodo da sola e procedo, non so come, ma procedo. Da sola è molto più complicato, ma non impossibile. Sono donna, tutti si aspettano che si abbia una marcia in più, no? No, non la si ha, ma glielo lasciamo credere a tutti, uomini e donne, così si sentono a posto con la coscienza mentre ci riempiamo di cerotti dopo ogni azione per ottenere diritti o ausili o quant’altro. Una frase ricorrente che sento pronunciare quando dico che ho una figlia gravemente disabile è “Ah guarda, sei brava, io non ce la farei”. E io rispondo con la solita: “Ah beh guarda, se ti ritrovi in barca impari a remare e basta”. È frustrante, davvero.

 

Più volte ti ho sentito pronunciare la frase “donne come me”. A che tipologia di donna ti definisci?

 

Le donne come me non sempre piacciono, perché sono ingombranti, scomode, limitanti, problematiche. Questa società non ha a cuore le donne, tantomeno le donne che hanno “un problema”. Per assurdo non piacciono nemmeno le donne che riescono a rimanere donne nonostante “il problema”. Sì, perché questa società ci vuole etichettabili, riconoscibili. Sei una madre di un figlio disabile? E allora via, devi mostrarti affranta e affaticata, vestita alla buona senza tanti fronzoli, possibilmente senza trucco e con gli occhi gonfi.
E mica penserai di volerti anche divertire, hai altro a cui devi pensare…e poi basta con la voglia di condividere tutto… la gente ha altro a cui pensare, ha la sua normalità da gestire.
La “gente” ha bisogno di crederti e se il tuo aspetto cozza con il loro immaginario (o con il loro specchio) diventano quasi nemiche. Sì, parlo di donne, ahimè. “Ma chi? Quella ha un figlio disabile? Non l’avrei mai detto!”. Appunto. Occhio, che non è proprio un complimento. Fortunatamente conosco tante altre donne meravigliose, di grande spirito e generose di cuore; sono state la mia salvezza.

 

Cinzia com’è la tua quotidianità?

 

La quotidianità di una donna separata, madre di un figlio disabile è pesante, molto pesante. O almeno, la mia lo è. Non ho aiuti a casa, almeno non quanto mi servirebbero. Lavoro part- time e mi sento dire continuamente ”beata te che fai 4 ore”. A me quelle ore “in meno” servono per organizzare e fare tutto quello che comporta la gestione di una casa, la spesa, vari appuntamenti medici e burocratici, incontri e aggiornamenti riguardanti la vita sociale di mia figlia. E poi servono per me stessa, per la mia mente, per il mio fisico, per la necessità di non arrivare stremata (e a volte ci arrivo lo stesso) per quando rientra mia figlia dal centro diurno, perché dopo non ho più la possibilità di uscire. Mi servono anche per cazzeggiare, perché no!
Mi trovo a volte ancora a dover giustificare il motivo di questo orario ridotto, lo faccio con una sorta di automatismo anche se non viene richiesto e ancora provo un senso di inadeguatezza, di disagio, perché la sensazione che provo è di un paragone verso quelle situazioni che funzionano abbastanza bene, ma funzionano perché hanno aiuti, una rete familiare e amicale che si attiva ed è onnipresente. Quante volte mi sono sentita dire (anche da figure referenti e professionali) che bisogna saper chiedere aiuto e soprattutto delegare. Si certo, come no. Delegare. Che parola strana. Ti guardano come se mettessi mano al loro portafogli.

 

Hai mai chiesto aiuto per la gestione di tua figlia?

 

Una volta chiedevo aiuto, appunto, ma sbagliavo a chiederlo a tutti. Ora so a chi posso chiedere e a chi no. Posso chiedere aiuto a chi mostra empatia e interesse per me e mia figlia in modo concreto, con la presenza, con le azioni, con la voglia di portare allegria e piccole soluzioni. Ogni tanto mi avvalgo di qualche collaborazione domestica, perché ho la schiena distrutta (e non solo) e una stanchezza quasi cronica ed è un classico che volino battute del tipo “ah, ma hai pure la colf!”
Ho passato anni a limitare mia figlia per i miei limiti. Sì, la presenza di mia figlia mi e ci obbligava spesso ad un’assenza dalla vita sociale, perché era troppo faticoso per me spostarmi con lei e amalgamarmi alla “normallegria” di tutti. Lo è tutt’ora a dire il vero, ma ora sono cresciuta e dopo varie analisi personali ho fatto sì che mia figlia entrasse a far parte di attività ludiche territoriali fatte a sua misura, non il contrario.

 

Vi è parità tra te e il tuo ex marito nella gestione di vostra figlia?

 

A volte penso: “Sono una donna e tutti danno per scontato che faccia la madre, cioè sto facendo quello che devo, nulla di più”. Mia figlia ha un bravo padre, sa prendersi cura di lei, anche se per motivi lavorativi non è presente quanto vorrei o quanto lei meriterebbe. Mi viene fatta spesso una domanda assurda quando si viene a sapere che sono separata: “ma suo padre la prende volentieri? Ti fidi? È capace?” Ora, perché mi viene da pensare che a parti invertite non farebbero mai la stessa domanda a lui? Perché si da sempre per scontato che sia la madre a gestire al 90% crescita e sviluppo di questi figli fatti insieme? Perché se si vede un padre che cambia un pannolino ad una ragazzina disabile (ma anche normodotata eh) in spiaggia tutti i presenti fanno la òla e volano complimenti a destra e manca come se piovesse? Perché se il padre la prende i week end pattuiti (cioè 4 giorni al mese) mi sento dire :” beh dai, è molto bravo!” A me non dicono nulla di tutto ciò; cioè mi si dice che sono brava, forza e coraggio, che è una croce che mi devo tenere e che devo dedicarmi a lei per sempre. Equivale a: finisci di essere donna perché ora non hai più nessun diritto di esserlo, devi fare solo la madre. Ma se fossi un uomo e facessi quello che sto facendo né più né meno? Se fossi un uomo non saprei più dove appendere le medaglie.