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Il 30 gennaio 1945 il governo italiano concedeva per la prima volta il diritto di voto alle donne. Il 10 marzo parteciparono alle loro prime elezioni. Ma la conquista del suffragio universale, a distanza di oltre 70 anni, non si è purtroppo tradotto nel raggiungimento di una pari rappresentanza di genere nel nostro parlamento. Anzi, le statistiche ci dicono che siamo ancora molto lontani da questo traguardo

 

 

Suffragio universale col trucco: così potremmo definire la decisione presa dal Consiglio dei Ministri il 30 gennaio del 1945 di concedere alle donne il diritto di voto (politico e amministrativo). Il trucco era che le donne potevano votare, ma non potevano essere votate, ovvero potevano disporre di quello che veniva definito ”voto passivo”, un classico di una certa ipocrisia istituzionale del nostro paese, che con grande fatica e colpevole ritardo si sarebbe liberato di norme vergognose come il delitto d’onore o la classificazione dello stupro come crimine contro la morale. Quel giorno l’Italia non ancora repubblicana, cucì una toppa peggiore del buco, ben visibile nel tessuto sociale dell’Italia che non era ancora uscita dall’incubo della seconda guerra mondiale. Se proprio si tiene a festeggiare qualcosa, sarebbe allora meglio attendere il prossimo 10 marzo, giorno in cui, nel 1946, si ritenne di rimediare a questo ”inconveniente”, aprendo la strada alle prime donne elette nelle amministrazioni locali e poco dopo, alle 21 che andarono a comporre l’Assemblea Costituente insieme ai loro 531 colleghi maschi.

 

 

Altre nazioni, come gli Stati Uniti, l’Inghilterra e persino la Germania si erano mosse già alla fine della Grande guerra, forse facilitate dal fatto di non avere una Conferenza Episcopale a cui andare a chiedere il permesso. Ma forse nemmeno il 10 marzo si dovrebbe festeggiare, a meno che non ci si voglia accontentare di celebrare un sistema che nel 2018 ha registrato come record di presenze di donne elette in Parlamento, un misero 35% del totale. Vale a dire che a oltre 70 anni dal voto del 1946, solo poco più di un terzo delle donne eleggibili, ha trovato un posto alla Camera o al Senato, senza aggiungere che per arrivarci, si è dovuto ricorrere all’avvilente rimedio delle ”quote rosa”, tra l’altro depotenziate dal ”Rosatellum” la legge elettorale con la quale si è andati a votare il 4 marzo dello scorso anno.

 

Diciamo che la strada per una vera e piena parità, traguardo al quale altri paesi sono riusciti ad avvicinarsi più del nostro, è ancora molto lunga. Il suffragio universale evidentemente non è garanzia di uguale rappresentanza, di rispetto e riconoscimento, le quote rosa intervengono rigidamente a modificare un sistema, senza offrire la necessaria e urgente riflessione sui motivi che hanno spinto ad adottarle (riducendo tutto ad una rigida questione di percentuali) e intanto le donne impegnate in politica continuano ad essere bersaglio di aggressioni verbali anche molto gravi da parte dei loro colleghi maschi, come è accaduto con Laura Boldrini o Cécile Kyenge. Che sia il 30 gennaio o il 10 marzo, sarà un giorno per ricordarci che molti sforzi devono essere ancora fatti e che troppo pochi evidentemente ne sono stati fatti.

 

Chiudiamo con un link alla classifica stilata dalla International Parliamentary Union che ha diffuso una classifica dei paesi in base alla rappresentanza femminile nei loro parlamenti, aggiornata al dicembre del 2018. L’Italia è al 28 posto e a precederla ci sono molti stati africani, centro e sud americani. Ruanda, Cuba e Bolivia occupano le prime tre posizioni, unici paesi dove la maggioranza nei loro parlamenti è costituita da donne.