Vivere finalmente lontano dall’incubo durato quasi una vita: un intervento di Paola Vigarani sulla violenza come trappola relazionale
Uno studio realizzato su donne maltrattate di Loryng e Meyers ha rivelato che la maggior parte delle vittime di violenza psicologica e fisica hanno riferito una storia di violenza assistita intra-familiare, cioè una storia di abuso emotivo nella famiglia d’origine.
Sono numerose le teorie psicologiche che spiegano questo fenomeno, in particolare la teoria dell’attaccamento di J. Bowlby, che offre interessanti considerazioni.
Se, come dice Bowlby, intendiamo l’attaccamento come la propensione degli esseri umani a creare vincoli affettivi forti con gli altri (che si sviluppano precocemente nei primi anni e si mantengono durante tutta la vita), si può dire che ciascuno di questi vincoli precoci andranno a segnare profondamente il modo in cui le persone faranno fronte a tutte le relazioni che verranno dopo. I “modelli rappresentazionali” sono così un sistema interno di aspettative e credenze riguardanti se stessi e gli altri, che permettono di prevedere i comportamenti delle figure d’attaccamento. La teoria dell’attaccamento apporta sicuramente un elemento ulteriore al tentativo di spiegare e comprendere il prolungamento del circolo della violenza e delle difficoltà che le donne vivono per tentare di uscire da una situazione nociva.
Dice D.Winnicott grande psichiatra inglese : “per ogni donna ci sono sempre tre donne : la bambina, la madre e la madre della madre, mentre l’uomo comincia con l’urgenza di essere uno … quando un uomo muore è morto, mentre le donne sono sempre esistite ed esisteranno sempre “. Questa affermazione suona quasi come una condanna: come può darsi una identità senza individualità ?
Se non mi percepisco come unica come potrò essere orgogliosa di me stessa , come saprò difendermi , dove troverò il coraggio per vincere le paure?
Questo scenario rappresenta l’eredità psichica femminile che si dipana generazione dopo generazione: ogni nuova nata diventa portatrice di una missione in cambio del riconoscimento da parte della madre stessa e dal clan femminile. Questa condizione è la matrice del riprodursi dei tradizionali modelli negativi legati al femminile: essere accondiscendenti, dedite, succubi e passive. Questa eredità psichica inconscia, che in quanto figlie, ci impone di occuparci della sofferenza di nostra madre, in realtà impedisce di prendersi cura di sé e crea le basi per un senso di impotenza feroce e di delusione incolmabile.
Nello scenario della violenza domestica, tra le altre componenti, emergono questi profondi vuoti di fiducia per la mancanza di un baluardo materno credibile: l’impotenza materna consegna la figlia a una condizione di ostaggio del maschile e la priva del diritto di ribellarsi.
Estrema conseguenza è anche la difficoltà di provare fiducia e gratitudine nei confronti di altre donne e si creano così le basi per il senso di solitudine e il tempo infinito che spesso trascorre prima di chiedere aiuto .
Ad incidere sul fenomeno, oltre agli aspetti psicologici vi sono anche aspetti socio – culturali. Ed è su questi aspetti che vorrei soffermarmi. Un’influenza fondamentale lo hanno anche le norme, i modelli e le arretratezze socio-culturali che impongono ciò che è “accettabile” e quello che non lo è, prescrivendo alle donne, come principale mandato di genere, la disponibilità, la dedizione e la cura del “maschio egemone” e della prole.
Elementi che vanno a condizionare il comportamento femminile in relazione al partner anche se ha un comportamento violento ed impongono uno stile di accettazione e di compiacimento che ha questa base come presunto “ideale femminile” e di conseguenza, il suo utilizzo come modello di riferimento (ereditato dalla madre) per stabilire il valore di sé.
Quindi il pericolo più grande sarà la minaccia della perdita dell’oggetto d’amore.
La madre, come prima figura di attaccamento e fonte d’identificazione diventa, attraverso condotte comportamentali e attraverso messaggi espliciti, il primo punto di riferimento che andrà ad influenzare la costruzione dell’identità della bambina, rispetto ad un modello di femminilità e di un “essere donna” socialmente e culturalmente “approvato”.
Quindi le verranno “tramandate” delle norme su come saranno i suoi abiti, su quali dovranno essere le reazioni emotive, su quello che è permesso e non è permesso fare, pensare e dire, legiferando non solamente su ciò che è bene o male, ma anche e soprattutto su ciò che “si deve essere, per essere donna”.
Numerose sono le donne che si i ritroveranno incastrate in relazioni nelle quali si sentiranno necessarie, nonostante stiano vivendo situazioni di reale violenza.
“Ero intrappolata da tanto, troppo tempo, in una vita che non sentivo mia, in una dimensione che non mi apparteneva. Dopo un’infanzia buia, fatta di botte e ogni forma di violenza agita da mio padre nei confronti di mia madre, e psicologica nei miei. Avevo deciso di andare lontano, di voltare pagina, di lasciarmi alle spalle quel triste e doloroso passato. Ero sicura di esserci riuscita, certa che potesse trattarsi solo di un capitolo molto buio, che non avrei più affrontato. A me non capiterà, non potrà mai più capitare. Ero sicura di me stessa quando tra me e me ripetevo questa frase. E invece, incredibilmente, beffardamente, il mostro era tornato. Improvvisamente, inspiegabilmente.
Rimasi attonita, senza fiato, la prima volta che lui, mio marito, iniziò a prendermi a schiaffi e cercò di strangolarmi. No, non potevo essere io quella persona. Non me lo potevo permettere, non era possibile. Era questo che icominciai a dirmi non appena realizzai che tutto quello che stava accadendo era purtroppo vero e stava accadendo a me, proprio a me, ancora a me. Smisi di amarlo all’istante. Sapevo perfettamente che chi ama non può essere violento, amore e violenza non sono compatibili nella maniera più assoluta. Avevo imparato la lezione fin da quando ero bambina.
Non ebbi il coraggio di reagire subito, quello mi mancava. Nessuno mi aveva insegnato ad uscire dalle relazioni violente. Mia madre è sempre rimasta al fianco di mio padre, nonostante tutto. Ero sovrastata dalla paura. Nessuno mi aveva fornito gli strumenti per ascoltare quella paura. La paura che, nel caso in cui lo avessi lasciato, avrebbe potuto fare del male, a me o ai miei cari. Iniziai a convivere con questa paura, pensando di non avere alternative e, in questa sorta di rassegnazione perenne, mio malgrado, mi ritrovai a vivere, per diversi anni.”. (Tiziana – Le Fenici)