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Hillman diceva che possiamo conoscere noi stessi solo attraverso un altro, non ci è concesso di riuscirci da soli.
La relazione con gli animali ci può aiutare in questa scoperta e, per molte di noi, è stato così. Inizieremo una serie di interviste a donne la cui relazione con gli animali è stata il viatico alla scoperta di sé, da un punto di vista personale e a volte, anche professionale.
Venere 50, in collaborazione con la scuola di PTRI, promuove da vent’anni corsi di formazione incentrati sulla relazione con gli animali. Spesso in questi percorsi le protagoniste sono donne, e per molte di loro, da quell’inizio, è partito un viaggio di crescita umana e professionale.
Altre donne che intervisteremo, le abbiamo incontrate nei nostri studi professionali, all’interno di percorsi di crescita o di psicoterapia; in tutti i casi sono testimonianze che pensiamo
possano essere d’aiuto al fine di rendere più consapevole il nostro rapporto con gli amici animali.

Oggi vi presentiamo la storia  di Monica Carnevali, 54 anni, impiegata.

 

 

Raccontaci com’è iniziata e come si è sviluppata la tua storia con gli animali

 

Gli animali nella mia storia ci sono sempre stati da che ne ho memoria.
Prima i cani “da caccia” di mio padre, ciascuno con il proprio carattere ben definito, nonostante venissero riconosciuti dagli adulti solo per la più o meno spiccata capacità venatoria. Su di me, che avevo due o tre anni, esercitavano un’attrazione irresistibile, specialmente quando arrivavano cuccioli. Ma secondo una mentalità diffusa in quegli anni, i cani cacciatori non potevano giocare o avrebbero perso la capacità di cacciare. Potevano soltanto apprendere, gli uni dagli altri, la capacità di cacciare. Infatti era consuetudine dei cacciatori affiancare sempre al cane adulto un cucciolo. Beh..io e questi cani, di nascosto, abbiamo giocato ugualmente. E il seme di un senso di ingiustizia per come venivano trattati me l’hanno lasciato. Seme che in effetti ha attecchito ed è rigogliosamente germogliato anni più tardi.

 

Poi ci sono stati i gatti. In quegli anni non usava, almeno in campagna, tenere un gatto in casa: tutti i gatti e soprattutto le gatte che mi hanno onorata della loro amicizia, erano individui liberi che andavano e venivano e si fermavano giusto per qualche coccola e poi tornavano alle loro faccende. Qualcuno non lo rivedevo più o ne trovavo il corpo a lato della strada.
Tuttavia, per quanto dispiacesse la morte di un amico felino, era normale considerare che questo potesse essere il prezzo della libertà. E’ una convinzione, pur di complicata gestione emotiva, che i gatti di allora mi hanno lasciato: non si può snaturare, potare o distruggere una vita in nome della sua “sicurezza”.
E intanto, oltre a cani e gatti, fino all’adolescenza sono state presenti nella mia vita molte altre animalità come le galline, con una delle quali, rossa, enorme, di nome Coca, avevo stabilito una relazione molto stretta, tanto che venne risparmiata dal contadino, suo “proprietario” ufficiale, potendo morire naturalmente di vecchiaia.
Poi è stato il turno di mucche, conigli, cavalli, asinelli, criceti, cocorite, tartarughine e pesci rossi.

 

E limitatamente all’osservazione, perché interagirci non era tanto facile sono arrivati anche gli insetti, i ricci, le chiocciole… insomma, praticamente qualunque essere vivente che mi capitasse a tiro.
Con ciascun animale si creava un rapporto speciale, o almeno io lo percepivo tale e attraverso queste relazioni, ho cominciato a credere molto presto che “detenerli”, letteralmente tenerli prigionieri, decidere della loro vita, non è giusto. Significa arrogarsi un diritto che, come specieumana, non abbiamo il diritto di rivendicare.
Sono gli animali liberi di esprimersi senza la nostra interferenza quelli che ancora oggi mi incanto a guardare: merli, tortore, cince e pettirosso che si incontrano nell’orto e si dicono cose, più o meno vivacemente, a seconda del periodo e dei motivi della discussione; cani che si incrociano nei parchi; gatti che intrecciano amicizie e momentanee alleanze o furibondi litigi…

 

Ci sono stati momenti cruciali della tua vita in cui questa relazione ti ha sostenuto e cosa ti ha insegnato?

 

Dopo l’infanzia e la prima adolescenza il mio rapporto personale con gli animali non umani si è un po’ dissolto: in parte perché la scuola che frequentavo era lontana e assorbiva molto tempo per gli spostamenti e lo studio, poi le nuove amicizie e non ultimo, il cambio di casa. Da una realtà immersa nella campagna, il passaggio ad una villetta a schiera in una zona residenziale ha reso molte interazioni animali non più così frequenti o facili da osservare.
Inoltre ero molto occupata a fare l’adolescente e la giovane vagabonda, letteralmente: molti traslochi e una storia personale un po’ articolata hanno fatto sì che non ci fosse tanto spazio per le esigenze di un animale.
Tuttavia l’animale è arrivato, ad un’età più matura, nelle forme di un gatto, Wooshi, a novembre del 2000, alla fine di un rapporto complicato.

 

E da lì è ripartito tutto. Con un gatto forse un po’ anomalo accanto (ha vissuto insieme a me tre traslochi senza battere ciglio e anzi, vivendosi pienamente i vantaggi che ogni nuova sistemazione comportava, da vero maestro della resilienza), ho iniziato a studiare i cani, un percorso in continua evoluzione che a tutt’oggi non è certo finito e grazie al quale ho maturato più domande che risposte e più dubbi che certezze. Ma appunto, gli animali per me hanno fatto qualcosa che reputo importantissimo nella mia vita: mi hanno obbligata a diventare disponibile a mettere sempre, molto (non tutto, io sono umana e non ce la posso fare) in discussione. Soprattutto molte certezze relative alla mia specie di appartenenza e al suo ruolo nel mondo.
E mi hanno anche fatto prendere consapevolezza del fatto che non ho “un” animale preferito, ma che gli altri animali, tutti, mi interessano enormemente, mi trasmettono emozioni e desiderio di conoscere da dove vengono, come sono, come comunicano, cosa provano e come lo provano, cosa li interessa e come interpretano il mondo… certa soltanto del fatto che la lente di ingrandimento, il filtro attraverso cui la specie umana legge, costruisce e si immerge nella realtà non è che uno – né migliore né peggiore – dei tanti possibili che non sono uno per specie ma probabilmente uno, peculiare, per ogni individuo.

 

Non ti è mai successo di essere criticata per la tua relazione con gli animali 

 

Ad eccezione dei miei genitori, che trovavano da ridire non tanto sulla relazione con gli animali in sé, quanto perché, passando il tempo ad osservarli a interagire con loro, ne avevo meno per altri impegni “più importanti”, come ad esempio lo studio (sic!). No, non sono mai stata criticata o almeno non lo ricordo (o forse non ho dato importanza e ho rimosso). Questo, negli anni dell’infanzia.
Successivamente invece, quando ho ripreso in mano questa passione e ricominciato a dedicarle spazio, sì, critiche ne sono arrivate, soprattutto da parte di alcuni amici e conoscenti. Ma ancora una volta, non era criticata tanto la relazione con gli animali, il curioso modo di considerarli o tutto lo spazio dedicato alle letture “sull’argomento animali”, quanto il fatto che il tempo lo sottraevo alle relazioni con gli umani.
E d’altra parte al lavoro dovevo andare, la gestione della quotidianità è sempre stata ingombrante, quindi il tempo per approfondire l’argomento “altri animali” e soprattutto occuparmi di quelli che vivevano con me, veniva per forza sottratto alla vita sociale.

 

L’atteggiamento di molti verso il mio interesse per quelli che in definitiva parevano essere, nel sentire comune, individui di “serie B”, sostanzialmente al servizio (emotivo!) degli umani, ha contribuito a rafforzare la mia convinzione che la visione antropocentrica del mondo sia proprio una cosa arbitraria e sbagliata.
Non mi riesce di capire come un amico o un familiare a quattro zampe anziché due, debba venire “dopo” nella lista delle priorità: quello che per me definisce la priorità di una relazione, non dipende dalla specie di appartenenza, anche se ovviamente, con specie diverse, si condividono modalità e contenuti diversi. Diversi, ma non meno importanti. E auspico, complementari.
Nel senso che nella vita, probabilmente, necessitiamo delle relazioni interspecifiche tanto quanto di quelle intraspecifiche, però non ce ne rendiamo più conto chiaramente, presi come siamo nella spirale di tante diverse “emergenze” la cui invasività forse andrebbe contenuta e il loro significato profondo nella nostra vita rivisitato, per verificare che siano veramente tali e non sovrastrutture fuori controllo.
Infatti, se non avvertissimo questo “richiamo della foresta” verso gli altri viventi, probabilmente ci basterebbe vivere nelle nostre comunità umane, e non sentiremmo il bisogno di accogliere nelle nostre case piante e animali con questi ultimi, un bisogno che sembra essere in continuo aumento.

 

Per molti l’animale è l’esatto opposto dell’umano, per altri invece è l’eco di una similitudine: tu cosa ne pensi?

 

A me non sembra che animali umani e altri animali possano dirsi “opposti”, mentre sicuramente con alcune specie possiamo rievocare similitudini, che forse sono anche le caratteristiche che ci permettono più facilmente di entrare in relazione.
In questo senso penso soprattutto a cani, gatti, cavalli e in generale, a tutti quegli animali che definiamo “domestici” e alla storia evolutiva che ha portato a intrecciare i nostri cammini fin dall’antichità.
Il mio pensiero lo riconosco perfettamente espresso nella seguente frase di Henry Beston: “Non si devono misurare gli animali col metro umano. Sono creature complete e finite, dotate di un’estensione dei sensi che noi abbiamo perso o non abbiamo mai posseduto e che agiscono in ottemperanza a voci che noi non udremo mai. Non sono confratelli, non sono subalterni; sono altre nazioni, catturate con noi nella rete della vita e del tempo, compagni di prigionia nello splendore e nel travaglio di questa terra”.
Con la maggior parte di queste nazioni non abbiamo neppure la possibilità di intrecciare relazioni individuali, così come comunemente viene intesa una relazione, ovvero uno scambio consapevole di vissuto ed esperienze. In molte di queste nazioni, credo che la nostra specie non sia neppure contemplata come interlocutore. Eppure queste non le rende meno reali, meno complete e meno necessarie all’intera rete.
Credo che sia ampiamente arrivato il momento di smetterla di pensare il pianeta come una piramide con la nostra specie al vertice e cominciare a vederlo per quello che realmente è: una sfera formata da tanti punti equidistanti dal centro. E, se proprio vogliamo definire un centro, una centralità, quella è occupata dal pianeta stesso.
In fin dei conti se noi (umani) siamo polvere di stelle, come ci ha definiti e spiegati l’indimenticabile Margherita Hack loro, le altre nazioni, in cui includerei tutti i viventi e non soltanto gli animali, non lo sono di meno.

 

 

In base alla tua esperienza cosa consiglieresti a una persona che sta pensando di far entrare nella propria vita un animale?

 

Prima di tutto direi di chiedersi perché si vuole far entrare nella propria vita un animale, qualsiasi sia la specie di appartenenza: le ragioni saranno probabilmente tante e diverse, ma quella preponderante credo dovrebbe essere il desiderio di condivisione di vita, perché un animale ha bisogno di condividere con noi tempo di vita, non solo di qualità ma anche proprio in quantità.
Poi consiglierei, prima, durante e dopo l’adozione di informarsi, di confrontarsi con professionalità dedicate (veterinari, educatori), rispetto alle caratteristiche di specie, di razza e comportamentali, tenendo però ben presente che ogni individuo è, appunto, prima di tutto un individuo, con caratteristiche, necessità, preferenze e vocazioni del tutto peculiari.
Dopodiché, via libera alle esercitazioni di empatia: accogliere un nuovo componente della famiglia è un’occasione, obbligata, per esercitarsi a sentire, a percepire, a entrare in sintonia con un altro essere vivente. E, per quanto difficile possa sembrare, alla pari, cioè riconoscendogli la stessa importanza, la stessa dignità e la stessa legittimità che rivendichiamo per noi stessi.
Da qui scaturisce una ulteriore considerazione: personalmente non mi affiderei mai a un professionista (educatore, istruttore, veterinario comportamentalista o altro) che mi suggerisse un approccio “dall’alto verso il basso”, ovvero che vedesse il familiare a quattro zampe come un subalterno sottomesso alle decisioni dell’umano: in alcune contingenze un atteggiamento “impositivo” potrebbe, per questioni di urgenza, anche rendersi necessario, ma credo debba essere limitato esclusivamente alle situazioni in cui proprio non se ne può fare a meno.
La visione che mi piacerebbe prendesse piede nel mondo è quella che vede tutti gli animali (di cui anche gli umani fanno parte) rapportarsi liberamente, per scelta, nel reciproco rispetto.