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di Paola Vigarani

 

Da diversi anni, nella mia professione di counselor clinico professionale, facilito un gruppo di crescita rivolto a donne accumunate dallo stesso disagio, conseguenza di relazioni di coppia violente.
All’interno del gruppo Le Fenici ho maturato attraverso l’ascolto empatico e l’esperienza diretta, la mia personale idea del significato di sorellanza.
Non è semplicemente solidarietà, è consapevolezza collettiva femminile di avere subito e stare ancora subendo (direttamente ed indirettamente) arretratezze culturali e stereotipi in merito alla diversità di genere.

 

Mi spiego meglio. Nel gruppo di crescita, le donne raccontano e narrano le loro esperienze dolorose: alcune di loro hanno subito violenza fisica, altre violenza sessuale o stalking, ma tutte hanno in comune la violenza psicologica da parte del partner o ex partner con comportamento violento.
Nel gruppo avviene un processo potente, un processo di cambiamento, di evoluzione, un processo che parte dalla narrazione della storia relazionale personale, alla quale le donne trovano il coraggio di dare voce.

 

Trovano il coraggio e finalmente smettono di vergognarsi, perché il gruppo diventa simbolicamente una base sicura, un luogo protetto che funge da contenitore e contenimento delle emozioni dolorose. Uno spazio nel quale le donne si affidano ad altre donne accumunate dallo stesso disagio e dallo stesso senso d’impotenza e frustrazione, un luogo in qui si viene accolte, senza giudizio con empatia e nel rispetto della tutela della privacy.
Le donne attraverso la narrazione hanno la possibilità di esplicitare, dare parole alla loro esperienza di vita di coppia, portare fuori significa tantissimo; esaminarsi, riconoscersi, perdonarsi, mettere ordine, confrontarsi con gli altri vissuti, destrutturarsi e ricostruirsi, in una parola, rinascere.

 

Questa narrazione significa infine, ma non da meno, dare inizio ad un potente processo di nominazione.
La nominazione, cioè attribuire le parole giuste ai fenomeni, è un processo. Quali sono le parole giuste e corrette per descrivere la violenza contro le donne? Quali sono i riferimenti teorici e le sfumature di significato.?
La nominazione fa esistere un fenomeno prima di allora innominabile, come spesso è la violenza. Per chi la subisce, come per le società che ne sono attraversate, dare nome vuol dire dare voce, fare esistere, prendere coscienza, attivarsi e posizionarsi contro. Tutte le donne che attivano questo processo di nominazione all’interno e fuori da gruppi preposti vivono la stessa spinta, lo stesso processo di “sorellanza”.
Sorellanza intesa quindi come il dare voce e visione ad un fenomeno, sorellanza come tentativo di dare continuità ai percorsi trentennali dei movimenti delle donne per le donne che hanno costruito un linguaggio ed un sapere dal quale oggi non possiamo più non prescindere.

 

Sorellanza come volontà di partecipare ad un cambiamento culturale, per contribuire al diritto delle donne alla libertà di vivere senza violenza ed oppressione.
Sorellanza come concetto che rafforza il fatto che la violenza di genere non è un fatto privato; non riguarda solo certe donne, ma riguarda tutte le donne, nessuna esclusa. La violenza sulle donne non è un fatto privato, è la manifestazione ultima, delle disparità e delle discriminazioni storiche nei rapporti uomo donna. A livello globale, la violenza di genere è strutturale, viviamo infatti in una società in cui uomini e donne posseggono gli stessi diritti ma non le stesse opportunità, non solo in famiglia, ma anche nel lavoro e nella vita sociale.
Possiamo pertanto affermare che il sistema patriarcale è consentito. In questo sistema il potere degli uomini sulle donne non si fonda su norme o leggi, ma su altri meccanismi più sottili e meno espliciti come la riprovazione sociale, i canoni di bellezza e la vittimizzazione secondaria.

 

Il microcosmo delle relazioni intime diventa così il continuum di un conflitto di genere che attraversa e pervade tutte le relazioni uomo/donna nella nostra società (famiglia/lavoro) e che ha la sua matrice nella legittimazione sociale di una differenza discriminatoria tra i due generi.
Lo stereotipo rispetto al genere diventa quindi strumento di discriminazione di genere verbale e linguistico, con non poche conseguenze negative sul piano psicologico da parte del femminile ed in particolare da parte di un femminile vittima.
La stereotipo più diffuso, viene esplicitato nella vittimizzazione secondaria.

 

Le donne che subiscono violenza possono subire una seconda e infinita vittimizzazione da parte delle istituzioni, delle forze dell’ordine, dei medici, dei familiari, degli amici e dagli stessi membri della società.
E’ frequente che una donna interessata da fenomeni violenti, nel momento in cui può e riesce ad uscire dall’isolamento in cui la relazione violenta l’ha costretta, possa trovarsi difronte al pregiudizio, alla non disponibilità, al non essere ascoltata e creduta, alla svalutazione, alla minimizzazione e peggio ancora ad un processo di colpevolizzazione.
La vittimizzazione secondaria viene agita da uomini e donne, a volte madri, amiche. Donne che evidentemente si sono conformate al modello patriarcale. Donne che contribuiscono a legittimare e normalizzare la diversità uomo/donna.
Per la donna che ha subito violenza, subire il giudizio di un femminile spesso comporta un’inevitabile amplificazione del senso di colpa, cosicché sarà probabilmente ancora più convinta di meritare quello che ha dovuto subire e si sentirà deprivata di tutto e da tutti.
Nel gruppo le Fenici spesso viene ribadito il concetto che è spesso da qui che occorre attivare azioni informative/formative preventive, altrimenti lo stereotipo sociale diventa inaccettabile da destrutturare e scardinare.

 

Queste sono alcune situazioni e frasi di vittimizzazione secondaria che alcune delle donne Fenici hanno dovuto subire da parte di gente priva di empatia e da parte anche di figure professionali che avrebbero dovuto sostenerle, ascoltarle empaticamente ed aiutarle.
Anche una singola parola, una frase sbagliata, alla mercé di tutti, può cambiare in negativo l’epilogo del suo provare a chiedere aiuto, per attuare il suo cambiamento verso la sua salvezza.

 

 

Le frasi che abbiamo dovuto sentirci dire

“Sei pazza”
“Avete trovato il vostro equilibrio di coppia”
“Ma dove vuoi andare?!”
“Se la picchia, lei urli”
“Ti lascio un numero…quello dello psichiatra”
“Non vorrà mica rovinarlo….se non si va d’accordo, ci si può lasciare”
“Ma una sberla cosa vuoi che sia”
“E’ colpa tua perché fai impazzire gli uomini”
“L’hai provocato”
“Non ti credo”
“Non le crederete mica? Ha gli attacchi di panico”
“Te lo sei scelto e adesso te lo tieni”