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9 marzo 1959, segnatevi questa data nel calendario delle principali ricorrenze della nostra cultura di massa, perché quel giorno irruppe sulla scena un’anonima ragazza vestita di un costume zebrato. Si chiamava Barbara Millicent Roberts, un nome da studentessa di Ivy League, ma per l’universomondo lei era, è e continuerà ad essere Barbie, la bambola più desiderata e venduta del pianeta.

 

Non vogliamo rendere conto della pervasività del fenomeno, citare l’oltre miliardo di articoli venduti da quando venne presentata per la prima volta alla Fiera del giocattolo di New York e dettagliare tutti i primati conquistati da questa bambola nel corso dei suoi sessant’anni di vita. Ci sembra più interessante ricordare come Barbie fu il frutto di una fenomenale intuizione di marketing avuta da Ruth Handler, cofondatrice, insieme al marito Elliot della casa di giocattoli Mattel. Ruth, osservando la figlia (Barbara) costruirsi da sola delle bambole di carta che rappresentavano degli adulti, pensò che la bimba stesse semplicemente mostrando che esisteva una domanda a cui lei avrebbe potuto dare una risposta. E il gioco fu fatto.

 

Da lì la narrazione di una bambola che ha saputo attraversare oltre mezzo secolo di storia adattandosi ai tempi, ai loro cambiamenti, all’evoluzione sociale, facendo diventare quel modello di bellezza W.A.S.P. Il simbolo di aspirazioni e frustrazioni di decine di milioni di bambine (ma il fascino delle Barbie sapeva anche superare le barriere d genere): vorremmo essere belle come lei, non possiamo essere belle come lei.

 

Nessuna, prima di Barbie, voleva assomigliare ad una bambola. Tutte, dopo il suo arrivo, volevano essere come lei e se non potevi essere come lei potevi aspirare a somigliare alle sue amichette con la pelle scura o con gli occhi a mandorla, con un nome chicano o uno chador a coprirle il capo. L’iniziativa sicuramene più rimarchevole, in tempi recenti, è stata poi quella di produrre una Barbie disabile, rivolgendosi a un segmento di mercato (perché sempre di un prodotto commerciale stiamo parlando) che nessuno, a quel livello, aveva mai pensato di sfruttare o al quale, se non vogliamo usare espressioni che potrebbero sembrare troppo aride, la Mattel ha ritenuto fosse arrivato il momento di rivolgersi. E se non potevi essere come lei, allora su di lei potevi sfogarti, praticandole una serie di crudeli sevizie, come molte adolescenti hanno fatto nel corso del tempo, esprimendo un sentimento ambivalente che nessuna bambola aveva mai ispirato.

 

Quali altre strategie di marketing ci riserverà la Mattel non è dato saperlo, ma a lei e ai suoi responsabili va riconosciuto lo sforzo di aggiornare un giocattolo che probabilmente in pochi si sarebbero immaginati che sarebbe riuscito a superare indenne sessant’anni di storia, facendosi testimone dei mutamenti sociali e culturali che si sono susseguiti nel tempo.