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Paola Vigarani ha incontrato Nadia Somma, per fare una riflessione sul giornalismo e la rappresentazione  della violenza di genere sui media

 

 

Nadia sei una counselor biosistemico nella relazione di aiuto, laureata in lettere. Hai lavorato dieci anni come pubblicista per alcuni quotidiani locali ed hai collaborato con La Voce. Come ti sei avvicinata e perché alla violenza di genere?

 

Nel 1991, venni inviata dal settimanale per cui scrivevo ad una conferenza stampa che presentava il progetto di un gruppo di donne di Ravenna per l’apertura del primo Centro antiviolenza della Provincia di Ravenna (e anche della Romagna) che venne chiamato Linea Rosa. Alla fine della conferenza stampa, misi via gli appunti e chiesi a quelle donne dove si sarebbero trovate per costituire il gruppo, fare la formazione e realizzare il progetto. Fui una delle socie fondatrici. Linea Rosa infatti si costituì come associazione nel febbraio del 1992. Per 6 anni abbiamo accolto donne che subivano violenza autofinanziandoci eppoi finalmente nel 1998 firmammo la convenzione per la prima Casa Rifugio.

Insieme a Luca Martini hai scritto  Le parole giuste. Come la comunicazione può contrastare la violenza maschile sulle donne. Cosa vi ha spinto a scrivere questo libro nel quale si evidenzia la vostra volontà di tracciare qualche linea guida circa le buone prassi nella stesura di un pezzo giornalistico con riferimento al suo linguaggio, sia scritto che visivo in tema di violenza maschile sul femminile?

 

E’ stato un incontro molto positivo quello tra me e Luca Martini. Mesi prima lo avevo intervistato per il blog sul Fatto quotidiano, dopo aver letto il suo libro, Altre Stelle Viaggio nei centri antiviolenza. Mi aveva colpito perché si era avvicinato alla realtà dei Centri con molta curiosità e rispetto e aveva compreso profondamente chi sono le donne dei Centri antiviolenza, cosa le anima, come lavorano e cos’è la violenza. Luca conobbe la realtà dei Centri antiviolenza grazie alla puntata che Riccardo Iacona realizzò nel 2013 sui centri antiviolenza. Prima non conosceva l’esistenza dei luoghi di donne, femministi, che sono sorti in Italia dalla fine degli anni ’80. Decisi di presentare il suo libro a Lugo, dove risiede il Centro antiviolenza dove ora svolto attività, Demetra donne in aiuto, nell’estate del 2017. Quella sera ci venne l’idea di scrivere un libro insieme sul tema del linguaggio della stampa nei casi di violenza contro le donne.

 

In Italia di violenza di genere si parla oggi sempre più frequentemente, sia a livello di carta stampata che di televisione, con amplia risonanza anche sui socials. Ma raramente il problema viene affrontato e discusso con competenza e conoscenza. Anche le strategie comunicative realizzate dal Governo negli anni, non hanno affrontato il problema nel modo adeguato. La donna viene descritta come una vittima, debole, passiva, spaventata, dallo sguardo livido, avvilito e assente, mentre l’uomo è, e rimane il grande assente. Il sito web del Dipartimento per le Pari Opportunità è rimasto immutato dal 2009, anno dell’ultima campagna di prevenzione. Che impatto ha in termini pratici e concreti il vostro sforzo di tracciare corrette linee guida rispetto al linguaggio e alle forme espressive in tema di violenza di genere, quando nemmeno lo Stato se ne fa carico?

 

La comunicazione del sito del DPO rispecchia le politiche dei Governi che si sono succeduti in questi ultimi 10 anni . Hanno affrontato il problema con interventi politici securitari ed emergenziali che puntano sempre ad aumentare le pene o incentivare un certo interventismo perché la donna viene percepita come soggetto debole da tutelare. Se la risposta dello Stato si fonda solo sulle norme penali e la persecuzione dei reati allora è una risposa insufficiente. E’ importante offrire alle donne strumenti per uscire dalla violenza finanziando i centri antiviolenza e le Case Rifugio, rendendo maggiormente capillare su tutto il territorio italiano, il lavoro di rete di tutti i soggetti che intervengono e possono essere coinvolti: ff.oo. servizi sociali, tribunali, centri antiviolenza con protocolli che rispettino la Convenzione di Istanbul. E’ importante mettere in campo progetti che realizzino l’empowerment delle donne e le mettano al centro del percorso di uscita dalla violenza e che si occupino di aiutarle a costruire una autonomia economica. E’ importante anche lavorare sulla prevenzione. Invece la donna non viene ancora valorizzata come soggetto di diritti e si cade nell’errore di trattarla come un soggetto debole da tutelare spesso confondendo per mancanza di adeguata formazione, le conseguenze traumatiche della violenza con una intrinseca debolezza delle donne che sono inchiodate al ruolo di vittima. E spesso si cade nella vittimizzazione secondaria soprattutto nelle stesse istituzioni.

Il raptus per gelosia costituisce la più potente mistificazione, cui difficilmente il cronista rinuncia, accanto al troppo amore, al delitto passionale che spostano crimini efferati sul piano del romanticismo, falsandone il movente. Sono narrazioni che, anticipano le sentenze, avanzando giustificazioni in base a quegli stessi pregiudizi che hanno generato il femminicidio. E che, in questo modo li consolidano immettendo nuova linfa alla cultura violenta. Nadia, quali potrebbero essere gli strumenti più efficaci per interrompere o almeno limitare la comunicazione stereotipata e il giornalismo sessista e profanatorio, tanto nella cronaca legata a fatti di violenza, quanto nella manifestazione, altrettanto violenta, di un pensiero maschilista e patriarcale?

 

Anche se ci sono criticità non siamo più all’anno zero. I Centri antiviolenza negli anni ’90 cominciarono a raccogliere rassegna stampa sui casi di violenza contro le donne perché compresero l’importanza di sensibilizzare su fenomeno in maniera corretta e comprendevano quando stereotipi e pregiudizi influenzassero la narrazione dei cronisti. Nel 1996 si svolse a Marina di Ravenna il primo convegno della Rete Nazionale dei Centri antiviolenza (che si formalizzò come associazione D.i. Re nel 2008) “Uscire dalla violenza si può” e ci fu il primo gruppo di lavoro che si confrontò sul problema.

 

Negli ultimi anni gruppi di donne, studentesse, attiviste femministe hanno realizzato studi e analisi del linguaggio della stampa e anche della pubblicità, ci sono state le giornaliste di Giulia che hanno posto il problema all’attenzione dei direttori dei giornali e dell’ordine dei giornalisti. Dal 2014 c’è la formazione obbligatoria per i giornalisti e sono inclusi seminari sul tema del linguaggio e della corretta narrazione della violenza contro le donne. Molto è stato fatto anche se ci sono ancora delle criticità ed è importante superarle. La Convezione di Istanbul all’art. 17 responsabilizza i media e li incoraggia ad elaborare linee guida e norme di autoregolamentazione per prevenire la violenza contro le donne e rafforzare il rispetto della loro dignità. Ci sono testi di riferimento per i giornalisti e le giornaliste. Il 30 dicembre del 2016 il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti  ha fatto proprie e condiviso le Linee Guida della Federazione Internazionale dei Giornalisti (IFJ Guidelines for Reporting on Violence against Women). Un documento a sua volta ispirato alla Dichiarazione dell’Onu sull’eliminazione della violenza contro le donne che risale nientemeno che al 1993. Nel 2017 invece è stato varato il Manifesto di Venezia elaborato da Cpo Usigrai, associazione GiULiA e sindacato veneto. Il documento venne presentato a Venezia il 25 novembre. Sono documenti importanti che insieme alla formazione possono dare ai giornalisti indicazioni sugli errori da non commettere. Parole come raptus, delitto passionale, dramma della gelosia rievocano un immaginario che estetizza la violenza contro le donne, isola ogni singolo episodio dagli altri, quindi rimuove la realtà della violenza contro le donne che è un fenomeno strutturale alla nostra società, trasversale alle classi sociali e che non conosce confini geografici ed ha una rilevanza statistica. Ci sono narrazioni che poi rivittimizzano le donne e le colpevolizzano per le violenze subite perché condizionate da una cultura patriarcale che ha, in epoche nemmeno tanto lontane, legittimato la violenza maschile.

 

La violenza contro le donne,invece è un fenomeno che si incontriamo nelle relazioni di intimità, nei luoghi di lavoro, nelle relazioni e a livello simbolico e comprende violenze fisiche, psicologiche, sessuali, economiche. Marcela Lagarde ha definito tutte queste violenze femminicidio spiegando che è “qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte”. E’ evidente che per evitare di cadere nello stereotipo e nel pregiudizio ci vuole formazione ma anche la capacità di destrutturare ciò che si è appreso. Per questo il cammino è lungo, No basta scrivere la parola “femminicidio” se poi si veicolano pregiudizi. Non è solo una questione di forma.