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Non esiste problema affrontabile ed eventualmente risolvibile, se non si ha consapevolezza della sua esistenza. Vale per una piccola guarnizione di gomma, consumata dall’uso, che provoca perdite dal rubinetto di un lavandino e vale per questioni di ben altra portata, come le discriminazioni di genere, che governano le nostre società da migliaia di anni, producendo una distorsione sistematica nei rapporti tra uomini e donne.

 

Basta la consapevolezza del problema a risolverlo? Evidentemente no. Ma non si può comunque prescindere da essa e in questo caso, disporre di un buon idraulico, non è purtroppo sufficiente.

Era il 15 ottobre del 2017, quando l’attrice Alyssa Milano aveva twittato il celebre hashtag #metoo, dando il via ad una inedita campagna, che per diverse settimane e mesi ha letteralmente seminato panico e isteria nel mondo dello show business, improvvisamente travolto da una cascata di accuse e denunce nei confronti di uomini celebri e potenti come il produttore Harvey Weinstein.

 

L’idea del #metoo era stata presa in prestito, su ammissione della stessa Alyssa Milano, dal claim utilizzato nel 2006 dall’attivista Tarana Burke, per una campagna di promozione dei processi di emancipazione e coesione delle donne afroamericane vittime di violenze sessuali.

Il clamore mediatico del #metoo ha raggiunto l’apice qualche mese più tardi, quando non solo a Hollywood, sono cominciate a saltare teste su teste, teste dai nomi eccellenti, tagliate dai consigli d’amministrazione delle major cinematografiche e televisive, prima ancora che dai tribunali ordinari.

 

Stelle come Kevin Spacey o lo stand up comedian K C Lewis, sono due tra gli esempi più noti o Jean Claude Arnault, marito di una delle giurate che assegnano ogni anno il Nobel per la letteratura. Le accuse di molestie a suo carico da parte di 18 donne, ha spinto l’accademia svedese a prendere la clamorosa decisione di non assegnare il premio, in attesa di riportare chiarezza e ordine all’interno di un’istituzione, il cui prestigio era stato fatalmente messo in discussione da quello scandalo.

 

In Italia c’è stato il caso di Fausto Brizzi, il regista romano, denunciato per molestie da tre donne diverse, proprio alla vigilia dell’uscita di un film da lui diretto. La casa di produzione, prima ancora che la magistratura si esprimesse, aveva scelto di epurare il suo nome dai cartelloni, in una goffa e frettolosa ”damnatio memoriae”.

 

Ad un garantismo che avrebbe dovuto essere concesso a chiunque non è stato ancora condannato per le accuse ricevute, l’industria dello spettacolo, come nel casi Weinstein, Spacey e Lewis, ha preferito agire per conto suo, nel tentativo di preservare i propri affari, fingendo di voler fare lo stesso con la morale. Nel caso del regista romano, ricordiamo che i tre procedimenti a suo carico sono stati archiviati nell’agosto di quest’anno. I primi due perché le denunce sono arrivate fuori dai limiti temporali previsti dalla legge e la terza perché il magistrato ha valutato che il reato non sussistesse.

 

La stessa Tarama Burke, diversi mesi più tardi, parlando al pubblico del TEDwomen 2108, ha constatato che quello che era nato come un movimento creato per le vittime della violenza sessuale, attraverso i media, si era trasformato in una caccia alle streghe, incoraggiando lo scoppio di una guerra di genere e aggiungiamo, forme grottesche di autocensura (non possiamo non citare un episodio sintomatico su un episodio tragicomico, quando una stazione radio di Cleveland la WDOK Christmas 102.1, incalzata da un ascoltatore che la riteneva poco in linea con il #metoo, dopo un sondaggio tra il suo pubblico, aveva deciso di togliere dalla playlist la celebre Baby it’s cold outside, il brano inciso nel 1944 da Frank Loesser e sua moglie Lynn Garland).

 

Per la prima volta, invece che le ”streghe”, ad essere cacciati sono stati gli ”stregoni” e i contraccolpi di questa campagna non hanno tardato a generare discussioni aspre e fortemente polarizzate. #metoo è stato il principale hashtag si Instagram, a sostegno di una causa, ma questo dato non ci dice su quanto questo movimento sia stato utile a produrre un sentimento condiviso attorno alle sue battaglie. Il mondo del cinema ha subito forti scossoni e per un’Asia Argento, controverso testimonial a fianco del movimento, c’è stata una Megan Gayle che ha ne preso le distanze, contestando il silenzio delle colleghe quando in anni passati, lei aveva denunciato pressioni e molestie, senza ricevere da loro nessuna attenzione.

 

La strada è lunga e irta di ostacoli, come era prevedibile, ma Tarama Burke in quell’occasione ha ribadito che l’obiettivo primario rimane quello di «un mondo senza violenze sessuali». Con o senza il #metoo.
In questi concitatissimi mesi, qualcosa di nuovo forse è effettivamente accaduto, almeno per una parte delle persone che si sono confrontate con le cronache che dominavano le prime pagine dei giornali. Quello che sembra essere successo, semplificando, è che alcune donne hanno trovato una consapevolezza (ed un coraggio), che prima non erano state in grado di esprimere: la consapevolezza delle molestie e delle violenze subite in un passato lontano o recente e con quella, il coraggio di denunciarle pubblicamente.

 

Ed è accaduto che contemporaneamente, alcuni uomini abbiano, con sorpresa più o meno sincera, preso coscienza del loro ruolo di molestatori. Come potrebbe essere chi scrive questo articolo, per esempio. Che non fa troppa fatica a trovare in se stesso, tracce di momenti della sua vita, in cui sono state equivocate o ignorate le intenzioni di una ragazza o di una donna ed è stato superato, non è importante di quanto, quel limite tra corteggiamento e molestia, che ancora oggi sembra difficile definire con certezza. Spiazzante, in questo senso, è stata la dichiarazione di Cathrine Deneuve, contenuta in una lettera aperta pubblicata da Le Monde e sottoscritta da altre artiste e intellettuali francesi: «Lo stupro è un crimine, ma tentare di sedurre qualcuno, anche ostinatamente o in maniera maldestra, non lo è, come la galanteria non è un’aggressione machista», aveva dichiarato la protagonista di ”Bella di giorno”, mostrando come questo confine fosse percepito in maniera affatto diversa dalle donne che lo valutavano.

 

Ciò che per qualcuna è galanteria, per altre è violenza: la linea che separa il bene dal male non è apparsa mai così incerta e questo è forse l’aspetto più problematico e dunque meritevole di approfondimento, dell’intera vicenda. In questa direzione va il libro di Sofie della Vanth ‘Il conflitto fra le donne’, testo in cui si invoca la necessità di un cambio di paradigma, capace di tramutare soggetti passivi in soggetti attivi, attivi soprattutto nella comprensione delle proprie conscie e inconscie corresponsabilità, nel millenario sistema di subordinazione delle donne al mondo di regole e schemi creato dagli uomini.

Ad ogni modo, se il confine tra galanteria e molestia può mostrarsi esile, meno esili e incerti sono i dati che ci parlano della violenza sulle donne, esercitata su di loro dagli uomini.

La principale fonte di riferimento per l’Italia è attualmente rappresentata da due indagini, elaborate dall’ISTAT nel 2006 e nel 2014 e diffuse nel settembre del 2017. Concentrandoci sui dati riportati nell’indagine del 2014, il quadro che emerge è quello di una società in cui la violenza sulle donne (che contempla quella fisica, sessuale, economica, psicologica e lo stalking) è un fenomeno che continua, nonostante alcuni positivi progressi, a condizionare pesantemente le vite di milioni di donne. Che sia un corteggiamento un po’ troppo insistito ad una festa o un omicidio tra le mura domestiche.

Questi sono i risultati della seconda indagine, riassunti direttamente dall’ISTAT

 

[blockquote text=”6 milioni 788 mila donne hanno subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Sono 652 mila le donne che hanno subìto stupri e 746 mila le vittime di tentati stupri. Le donne straniere hanno subìto violenza fisica o sessuale in misura simile alle italiane nel corso della vita (31,3% e 31,5%). La violenza fisica è più frequente fra le straniere (25,7% contro 19,6%), mentre quella sessuale più tra le italiane (21,5% contro 16,2%). Le straniere sono molto più soggette a stupri e tentati stupri (7,7% contro 5,1%). Le donne moldave (37,3%), rumene (33,9%) e ucraine (33,2%) subiscono più violenze. I partner attuali o ex commettono le violenze più gravi. Il 62,7% degli stupri è commesso da un partner attuale o precedente. Gli autori di molestie sessuali sono invece degli sconosciuti nella maggior parte dei casi (76,8%). Il 10,6% delle donne ha subìto violenze sessuali prima dei 16 anni. Considerando il totale delle violenze subìte da donne con figli, aumenta la percentuale dei figli che hanno assistito ad episodi di violenza sulla propria madre (dal 60,3% del dato del 2006 al 65,2% rilevato nel 2014) Le donne separate o divorziate hanno subìto violenze fisiche o sessuali in misura maggiore rispetto alle altre (51,4% contro 31,5%). Critica anche la situazione delle donne con problemi di salute o disabilità: ha subìto violenze fisiche o sessuali il 36% di chi è in cattive condizioni di salute e il 36,6% di chi ha limitazioni gravi. Il rischio di subire stupri o tentati stupri è doppio (10% contro il 4,7% delle donne senza problemi). Emergono importanti segnali di miglioramento rispetto all’indagine precedente: negli ultimi 5 anni le violenze fisiche o sessuali sono passate dal 13,3% all’11,3%, rispetto ai 5 anni precedenti il 2006. Ciò è frutto di una maggiore informazione, del lavoro sul campo, ma soprattutto di una migliore capacità delle donne di prevenire e combattere il fenomeno e di un clima sociale di maggiore condanna della violenza. È in calo sia la violenza fisica sia la sessuale, dai partner e ex partner (dal 5,1% al 4% la fisica, dal 2,8% al 2% la sessuale) come dai non partner (dal 9% al 7,7%). Il calo è particolarmente accentuato per le studentesse, che passano dal 17,1% all’11,9% nel caso di ex partner, dal 5,3% al 2,4% da partner attuale e dal 26,5% al 22% da non partner. In forte calo anche la violenza psicologica dal partner attuale (dal 42,3% al 26,4%), soprattutto se non affiancata da violenza fisica e sessuale. Alla maggiore capacità delle donne di uscire dalle relazioni violente o di prevenirle si affianca anche una maggiore consapevolezza. Più spesso considerano la violenza subìta un reato (dal 14,3% al 29,6% per la violenza da partner) e la denunciano di più alle forze dell’ordine (dal 6,7% all’11,8%). Più spesso ne parlano con qualcuno (dal 67,8% al 75,9%) e cercano aiuto presso i servizi specializzati, centri antiviolenza, sportelli (dal 2,4% al 4,9%). La stessa situazione si riscontra per le violenze da parte dei non partner. Rispetto al 2006, le vittime sono più soddisfatte del lavoro delle forze dell’ordine. Per le violenze da partner o ex, le donne molto soddisfatte passano dal 9,9% al 28,5%. Si segnalano però anche elementi negativi. Non si intacca lo zoccolo duro della violenza, gli stupri e i tentati stupri (1,2% sia per il 2006 sia per il 2014). Le violenze sono più gravi: aumentano quelle che hanno causato ferite (dal 26,3% al 40,2% da partner) e il numero di donne che hanno temuto per la propria vita (dal 18,8% del 2006 al 34,5% del 2014). Anche le violenze da parte dei non partner sono più gravi. 3 milioni 466 mila donne hanno subìto stalking nel corso della vita, il 16,1% delle donne. Di queste, 1 milione 524 mila l’ha subìto dall’ex partner, 2 milioni 229 mila da persone diverse dall’ex partner.” text_color=”” width=”” line_height=”undefined” background_color=”” border_color=”” show_quote_icon=”no” quote_icon_color=””]

Molte ombre e qualche luce, come possiamo constatare. Nulla che in realtà ci sorprenda.

Le poche luci che vediamo, dipendono anche dalla capacità delle istituzioni e delle amministrazioni di affrontare il problema con gli strumenti necessari, come possono essere le leggi o le strutture di ascolto e accoglienza. Ecco, soprattutto oggi, su questo è lecito esprimere profonde preoccupazioni. Inutile ricordare come la legge che garantisce il diritto d’aborto, sia nei fatti sabotata dalla possibilità di obiezione di coscienza da parte del personale medico: uno degli esempi più evidenti di come un diritto acquisito e garantito per legge, un diritto riconosciuto prima di tutto a tutela dell’autodeterminazione delle donne, sia invece negato nella pratica, in attesa di essere riformulato o riformato da una classe politica, che oggi sembra più che mai intenzionata a ridimensionare questa autodeterminazione.

 

Ne sono dimostrazione il contestato disegno di legge di riforma sull’affido condiviso, presentato dal senatore leghista Simone Pillon o le dichiarazioni ”intemerate” del ministro per la famiglia Lorenzo Fontana. E ne sono indicazione anche le enormi difficoltà economiche delle Case per le donne e di strutture omologhe, che svolgono un ruolo fondamentale e delicato di ascolto e accoglienza, ma la cui esistenza diventa di anno in anno sempre più incerta o se certezza c’è, è quella dello sfratto, come è accaduto alla Casa delle donne in via della Lungara, che la giunta di Virginia Raggi, primo sindaco donna di Roma, ha obbligato ad abbandonare la storica sede di Trastevere, lo scorso agosto.

La situazione europea non è dissimile da quella italiana, nel senso che rimangono ad essere le donne le principali vittime di violenze sessuali e gli uomini a compierle. Le cifre sul numero dei reati, compresi quelli relativi ai femminicidi vanno presi con cautela. Gli indicatori Eurostat ci parlano di violenze e reati denunciati e non commessi ed è per questo motivo che forse non deve sorprendere che il più alto numero di reati siano registrati nei paesi del nord Europa, dove è più probabile che i numeri delle violenze commesse e violenze denunciate non siano separati dal baratro che caratterizza il resto del continente.

Anche il numero dei femminicidi dipende dai diversi criteri di classificazione utilizzati dai vari paesi dell’UE e per questo motivo il quadro che ne esce è fatalmente disomogeneo, oltre che incompleto, considerando che son ben 13 i paesi che non hanno fornito dati statistici su questo tipo di reato.

Di fronte al fenomeno #metoo abbiamo visto molte donne scalpitare, esporsi e battersi. Alcune hanno risposto alle prime con insofferenza, irritazione e disprezzo. Altre, semplicemente, hanno preferito tacere. E gli uomini? Magari si sono messi a brancolare smarriti o invece si sono aggrappati con più forza e ostinazione ai loro pregiudizi, in pochi sembrano aver avuto la voglia o la capacità di riconoscere e affrontare il grande, enorme elefante nella stanza: la variabile, ma permanente condizione di subordinazione delle donne e le diverse conseguenze che questa ha prodotto, produce e continuerà a produrre.

La discriminazione è quella più evidente. Tutti ne posso prendere atto, la possono vedere, incrociare ogni giorno, basta un colpo d’occhio. Basta, per fare un solo esempio, guardare distrattamente al telegiornale le immagini di un qualsiasi parlamento o di un esecutivo, le riprese girate in un’aula di tribunale, nelle sedi di una segreteria di partito o di sindacato: tutti organismi composti da uomini e quando questo non accade, è perché le donne sono riuscite a conquistare più spazi o perché si è dovuto ricorrere a contrappesi di genere, imposti per legge, come ha recentemente deciso di fare il governo della California, che obbliga i consigli di amministrazione quotate nello stato, ad avere almeno un componente donna al loro interno.

La campagna #metoo, al di là di ogni giudizio, ci ha costretti ad ammettere per breve tempo, l’esistenza di qualcosa che era lì da sempre e che tutti facevamo del nostro meglio per ignorare. E questo ha generato un’enorme sconcerto, non perché gli episodi di violenza venissero considerati odiosi, ma perché si è avuto per un momento, la sensazione che quell’evento potesse realmente mettere in discussione un ordine costituito. Non era più la singola denuncia di una singola donna, ma l’apparente atto di insubordinazione di più persone, tutte dello stesso ambiente, tutte dichiaratesi vittime dello stesso uomo e tutte determinate ad inchiodarlo alle sue responsabilità. Costasse quello che costasse.

Mettendo in discussione i potenti, si sono naturalmente messi¬ anche in discussione i modi in cui i potenti esercitano il loro potere, vale per piani più alti dello show business internazionale, come per quelli molto più bassi delle nostre case, delle nostre famiglie e delle nostre relazioni.

Anche in quei contesti il ”power play” è una costante, ma quello che ci sorprende, quando restringiamo il nostro sguardo allo specifico ambito delle violenze domestiche e dei conflitti all’interno delle coppie, è scoprire che uomini e donne sono ugualmente aggressivi. Esiste una vasta letteratura di studi su questo tema che fin dagli anni ottanta, con i primi esperimenti condotti in alcuni campus statunitensi, ci dice come gli episodi di violenza all’interno delle coppie sia ugualmente ripartita tra maschi e femmine (si veda a proposito questo link ed anche quest’altro).

Questo dato si riscontra in analoghi esperimenti e ricerche che hanno coinvolto 32 paesi, anche non occidentali: le violenze tra partners sono commesse in eguale percentuale sia dagli uomini che dalle donne, da entrambi o solo da un componente delle coppia. E questi dati fanno affiorare un problema che fatica a trovare adeguato spazio nel dibattito pubblico: così per le donne, anche per gli uomini, denunciare una violenza subita non è un processo facile, come appare in uno studio pubblicato da Emily Douglas e Denise Hines del 2011 in cui si rileva che gli uomini vittime di violenza domestica non potevano contare su adeguate strutture e servizi, omologhi a quelli messi a disposizione delle donne: il 78,3% dei centri antiviolenza, il 63,9% delle linee antiviolenza e il 42,9% delle risorse online rispondevano, agli uomini che vi si rivolgevano, che i loro servizi erano destinati solo alle donne.

 

Oltre a questo ostacolo strutturale, permangono, come per la donna, sentimenti di vergogna per la propria condizione o di paura, in questo caso tutta maschile, di non essere riconosciuti come vittime. Intanto, negli Stati Uniti, i dati sugli omicidi all’interno delle mura domestiche, dal 1980 al 2013, sono passati da un 69% di vittime donne, ad una sostanziale parità. Se la violenza sessuale rimane un assoluto appannaggio degli uomini, quella domestica mostra come non ci siano più differenze tra i due sessi: vittime e carnefici spesso si confondono, ma le ferite che queste violenze provocano, hanno uguale bisogno di cure e attenzione.

L’aggressività non è una prerogativa maschile, ma l’aggressività femminile ha ragioni e origini diverse da quella manifestata dagli uomini? A questa domanda ha inteso dare una risposta la psicanalista Marina Valacarenghi, nel libro ”L’aggressività femminile”

 

Emerge l’idea di una sua compressione artificiale, radicata nella storia e nei miti fondativi delle società umane. Come l’idea che questa compressione sia in relazione con il modo in cui le donne percepiscono la loro identità o si riconoscono in quella che quelle stesse società hanno plasmato per loro. Il conflitto è ogni volta inevitabile, lo percezione dello scarto tra ciò che si è, si vorrebbe essere o si deve essere, per riuscire ad adattarsi all’ambiente, può rimanere sepolto nel cuore, trasformandosi in un senso di colpa annichilente o esplodere improvviso, in uno sfogo violento di rabbia e frustrazione. Sentimenti, questi ultimi, che muovono anche le azioni degli uomini, come la paura e la vergogna possono invece inibirle, lo abbiamo visto nel caso delle violenze domestiche. Il loro riconoscimento da parte delle stesse vittime e poi delle autorità e delle istituzioni chiamate a intervenire, è fondamentale. Come è fondamentale che questo riconoscimento avvenga reciprocamente da parte di entrambi i sessi.

In questa sede non possiamo giungere a nessun altra conclusione, se non che la situazione sia esattamente come la percepiamo, molto grave, sia sul fronte delle violenze che su quello della discriminazione. I piccoli passi in avanti che si sono fatti, ancora, evidentemente non bastano, mentre addirittura si rischia di ritornare indietro, cercando (e a volte riuscendoci) di negare alle donne quel poco di tutele e diritti conquistati con enorme fatica. L’allarme è perennemente rosso, sin dai tempi della cacciata dal giardino dell’Eden e da allora metà della popolazione di questo pianeta continua a vivere secondo le regole e gli schemi dell’altra metà, con tutto l’inevitabile corollario di discriminazioni, persecuzioni e violenze.

 

Quello che è certo è che le soluzioni non possono e non devono venire dagli uomini. Qualunque azione o soluzione o approccio, deve arrivare dalla metà discriminata di questo pianeta e non da quella che le discrimina. Gli uomini possono avere l’opportunità di condividere un cammino con le donne e supportarlo con tutti i mezzi di cui dispongono. Il primo e più importante, è la buona fede, l’onestà intellettuale, la capacità di sentirsi profondamente parte di un problema e assumersi le conseguenti responsabilità.

 

Da uomo, so cosa dire e suggerire agli altri uomini e da uomo ho grandissime difficoltà a dire o suggerire qualcosa alle donne. Posso solo augurarmi che si possano aprire spazi sempre maggiori di consapevolezza e coscienza e che questi spazi possano aumentare il loro livello di autodeterminazione e garantire un rispetto più completo delle pari opportunità in ogni settore della nostra società. In questo senso, la strada è ancora molto lunga, ma ci piace pensare che non sia infinita.

Concludiamo citando un episodio. Nel corso di un workshop al CERN di Ginevra, dedicato specificatamente al tema del genere, all’interno degli studi sulle alte energie, il professore e ricercatore Alessandro Strumia ha prodotto un intervento apertamente sessista, sostenendo fondamentalmente che se una discriminazione di genere esiste nel mondo della fisica sperimentale, è proprio contro gli uomini, penalizzati nei confronti delle colleghe donne, meno meritevoli scientificamente, ma invece più tutelate e garantite. E per dar prova di questa tesi, ha citato, nello sconcerto di tutti, il nome di una scienziata che secondo lui era stata avvantaggiata a suo danno, per la vittoria di un concorso. Proprio in virtù di questa discriminazione di genere al contrario.

 

Strumia, non si è fatto remore a sostenere, durante il suo intervento, che le donne non siano, per loro natura, adatte ad occuparsi di fisica. Se queste affermazioni non fossero gravissime e inaccettabili (e infatti non sono fortunatamente passate senza conseguenze), farebbero sorridere, pensando che sono state pronunciate in un convegno voluto dal CERN, di cui è direttrice proprio una donna, Fabiola Giannotti e che poi, solo pochi giorni dopo, il Nobel per la fisica è stato contestualmente assegnato oltre che a Arthur Ashkin e Gérard Mourou, anche a Donna Strickland, terza scienziata ad ottenere questo riconoscimento dopo Marie Curie nel 1903 e Maria Goeppert -Mayer, nel 1963.
A lei, a tutte quelle che ci sono state e che verranno, vanno le nostre più sincere congratulazioni.