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Chi sono gli uomini maltrattanti ? Paola Vigarani cerca di comprenderlo attraverso una chiacchierata con Michele Poli, presidente e conselor del Centro di Ascolto uomini Maltrattanti di Ferrara.

 

Michele sono tanti anni che lavori all’interno di relazioni di aiuto individuali e di gruppo con uomini maltrattanti. Perché e come ti sei avvicinato a questa tipologia di disagio e di utenza?

 

Il passo decisivo è avvenuto con la malattia e la morte di mio padre. In quegli ultimi suoi drammatici mesi ho vissuto esperienze che mi hanno costretto a crescere e ad interrogarmi sulle mie relazioni con lui, innanzitutto e poi con gli altri uomini. Mi sono accorto che nel corso della mia vita mi ero comportato con mio padre assumendo un atteggiamento e un ruolo, quello di “figlio”, inteso come io pensavo dovesse essere.
Ma io e lui eravamo esseri umani, quindi anche altro rispetto ad un padre e ad un figlio e soprattutto, mi ero reso conto che non lo consideravo un ”uomo.”, al di là del ruolo paterno. Lui è stato un padre con tante cose che non mi piacevano e tante che mi piacevano, ma sicuramente non si è mai messo in competizione. Ogni cosa che facevo per lui era più che ok, era subito bellissima e forse anche questo ha fatto sì che per me, spingermi a relazionarmi con gli uomini, oltre i limiti omofobi e patriarcali imposti come consuetudini tra maschi, non sia stato poi così difficile. Comunque, ho trovato in me il coraggio di vederlo morire tenendolo per mano e lui si è lasciato accompagnare da me. Mentre lui moriva io sentivo di poter rinascere e rimettere in discussione molto del modo in cui leggevo il mondo e soprattutto il mio relazionarmi con gli uomini e con le donne. Ho sentito che mi passava il testimone e che ero libero di continuare a modo mio.

 

Il movimento femminista in Italia ha fatto notevoli passi in avanti in termini di mobilitazione allargata, mentre è innegabile che da parte “maschile” non ci sia stata una simile capacità di attivazione e di risposta al fenomeno della violenza di genere. In Italia, più degli altri paesi europei, sembra che il compito di liberarsi da un sistema di oppressione e violenza millenario sulle donne debba spettare esclusivamente alla parte oppressa e non all’oppressore. Qual è il motivo secondo il tuo parere?

 

Io non ne comprendo le ragioni storiche, ma so che nella nostra società vige una mentalità mafiosa che attraversa la famiglia, il lavoro, i partiti, i sindacati, le fedi, le ideologie, fino alle singole coscienze, che soffoca la libertà di ognuno. Si è trattato di una modalità che ha dato vantaggi a molte persone, ma a detrimento del diritto di altre e quindi, nel complesso, ha arrestato il percorso collettivo di liberazione e crescita morale. Il pensiero mafioso è strettamente collegato al patriarcato e alla mascolinità, anzi, è stato originato dal patriarcato stesso. In un contesto del genere, la libertà delle donne è impossibile perché mette in crisi un sistema al contempo familistico-mafioso-economico-ideologico, un unicum compatto.

 

Per non perdere quei pochi vantaggi estorti, ma funzionali, restiamo attaccati alle miserie e all’ignoranza di stampo mafioso, che impediscono persino di immaginare il bene dell’altro, solo perché non corrisponde a quello del gruppo di appartenenza. Così il conformismo criminale dilaga e contagia. Ho accennato anche al sistema ideologico perché, secondo me, la dinamica che regna tra i partiti politici e in senso più largo, tra le ideologie, tra le concezioni del mondo che si confrontano in Italia, non è mai stata analizzata abbastanza in questo senso: ad esempio sinistra e destra, dall’epoca dei Guelfi e Ghibellini, non hanno quasi mai fatto l’interesse di tutti e hanno spesso odiato l’avversario fino a “de-umanizzarlo” e a trattarlo come un mostro estraneo al corpo sociale.

Questa è storia dei giorni nostri! C’è chi mi vede come un mostro se decido di porre fine alla mia vita da paralizzato in un letto, se sono vegetariano, se non voglio vaccinare mio figlio, etc… Io dialogo spesso con uomini e donne e difficilmente incontro persone disposte a riconoscere la diversità altrui senza odiare o averne paura, soprattutto quando il confronto riguarda visioni del mondo diverse.
Ci sono zone di pensiero inesplorate, perché ancora oggi si teme che guardandovi dentro e sottoponendole ad un esame critico, si inneschi comunque una reazione ostile da parte della collettività, che spesso preferisce mantenere lo status quo, piuttosto che denudarsi e rivelare i propri limiti. Secondo me, la violenza agita sulle donne permane proprio perché abbiamo interiorizzato queste paure. Mi permetto di dire che anche il pensiero femminista di cui mi nutro – so che sto generalizzando – e che è ancora rivoluzionario e costruttivo, a causa della violenta resistenza degli uomini e purtroppo anche di donne colluse, è giunto a criticare solo una parte del sistema patriarcale, lasciando intatte ampie sfere di potere. Secondo me, né le donne né tantomeno gli uomini hanno ancora visto fino in fondo i nefandi effetti del controllo maschile. Affrontare i problemi alla radice induce a misurarsi con la paura dell’ignoto che si presenta quando le radici sono recise.

 

Io come uomo fatico a distruggere il percorso culturale sul quale ed in base al quale la mia identità maschile si è edificata. Significa fare un salto nel vuoto e, siccome sono ancora pochissimi gli esempi positivi in questo senso, serve il coraggio dell’apripista. Cerco di fare strada assieme ad altri uomini nei gruppi del nostro Centro di Ascolto: “approfitto” di un momento di loro grave difficoltà per spingerli oltre. Diversamente, nei gruppi di riflessione maschile che ho conosciuto, si partecipa in base ad un interesse al cambiamento meno intenso e pressante rispetto a chi sta magari rischiando di perdere l’affetto di moglie e figli, perciò vi ho raramente visto avvenire trasformazioni radicali. Anzi, quando insistevo per spronare ad analisi più profonde e articolate, trovavo un muro, a volte eretto anche con il ricorso alla violenza. Invece, il senso di fallimento e di frustrazione che spesso vivono gli uomini che incontro al centro, dopo essersi resi conto che i loro comportamenti li hanno portati alla distruzione dei loro stessi sogni, li pone in una situazione di imbarazzo, di inadeguatezza e grazie ad una consapevolezza profonda del loro stato di malessere, accettano di fare il salto in una dimensione totalmente nuova. In più, gli uomini che sono dentro al percorso di gruppo da più tempo trasmettono al nuovo arrivato la fiducia e la forza necessarie per cambiare in maniera radicale.

 

Molti uomini apprendono le regole del sistema patriarcale sin dall’infanzia, da quando gli mettono un grembiule azzurro e non rosa, quando gli spiegano che ci sono le cose da maschio e le cose da femmine, quando ascoltano e quindi usano un linguaggio sessista pensando che siano solo parole, quando devono dimostrare a tutti di essere “veri uomini”. Premesso ciò, come uomo e professionista che aiuta altri uomini a scardinare le discriminazioni di genere che portano alla violenza, hai dovuto fare un lungo percorso di consapevolezza e di rilettura in termini socio-culturali?

 

Si, sono almeno 20 anni che ci provo. Sono vent’anni che cerco di smascherare dentro di me e intorno a me le trappole che noi stessi uomini ci siamo tese. Trappole psicologiche e sociali che non ci consentono di vivere una socialità più attenta e interessata alle donne e meno diffidente verso gli uomini. Si tratta di una battaglia che richiede forze immense: mano a mano che sento sgretolarsi il mio maschilismo, riconosco le radici dentro di me non ancora estirpate, perché sottili e intrecciate alle mie convinzioni più positive. Per sradicarle dal mio tessuto psicofisico servono azioni e pensieri da sottoporre a disparate critiche, al fine di saggiarne la tenuta e la coerenza. Cogliere i fenomeni violenti verso la mia partner o verso le persone che mi circondano è una pratica quotidiana a cui mi sottopongo, anche grazie ai numerosi gruppi in cui dibatto di questo: studenti, autori di violenza, equipe di lavoro, altri uomini in cammino…

 

Non si tratta di cogliere questo solo nel linguaggio, ma anche in tutte le dimensioni del vivere: dalla risposta svilente che do a una persona, fino ad includere il proprio rapporto con la morte e quindi il senso dell’esistenza. Anzi per dirla meglio, serve cercare di connettere i grandi significati ai piccoli gesti quotidiani, attraverso la luce della differenza di genere. Sono sempre più convinto che lo scopo non debba essere abbattere gli stereotipi, col rischio di crearne altri anche peggiori, ma di essere spontanei e in connessione con se stessi. La violenza si annida proprio nel cercare conferme identitarie. Ma comprendo che questa frase potrebbe apparire vuota e senza senso se non si attua la pratica di abbandono all’esistente. Sembra un pensiero acquiescente, ma può essere rivoluzionario e che conduce alle soglie del “sacro” presente in ognuno di noi umani.