Nel 1988 il regista John Waters girò un’adorabile commedia intitolata ”Hairspray” (Lacca per capelli). In Italia il film arrivò nelle sale con il titolo di ‘‘Grasso è bello”. Il riferimento era alla giovane protagonista, un’adolescente innamorata del ballo e soprattutto, assolutamente a suo agio con il suo corpo, che oggi verrebbe descritto ”curvy”.
Il messaggio era chiaro: la bellezza non dipende da quanto pesi, ma da quanto tu ti senti a tuo agio con te stessa, anche e soprattutto quando molti non esiterebbero a darti della ”cicciona”. Grasso è bello, ma anche magro, ma anche alto o basso o comunque sia il nostro corpo, sempre, fatalmente condannato a non rispecchiare i canoni estetici dettati dalle riviste di moda, dal cinema o dalla televisione.
Da un po’ di tempo a questa parte, la riflessione sul diritto delle donne a non sentirsi in colpa per le loro naturali e diffuse rotondità ha prodotto un nuovo atteggiamento e nuove espressioni. In testa troviamo alcuni marchi di abbigliamento (H&M è uno di questi) che hanno cominciato a far indossare i propri capi a modelle sicuramente più paffute di quelle che siamo abituati a vedere nelle foto promozionali e poi nomi di donne famose, attrici, sportive, musiciste e influencer si sono aggiunti a rimarcare l’importanza di rivendicare con orgoglio quelle che (soprattutto l’industria della moda) considera imperfezioni e difetti incompatibili con i canoni di bellezza dell’industria del fashion.
Si comincia dunque ad affiancare l’espressione ”bodyshaming” (una sorta di bullismo praticato su chi si azzarda a mettere in mostra il proprio corpo senza curarsi se questo è conforme agli standard) a quella di ”fat acceptance”, cioè alla capacità di accettare i propri ”chili di troppo” senza considerarli, appunto, di troppo, ma semplicemente un tratto della propria persona, come il colore degli occhi o il timbro della voce. La ‘fat acceptance” si contrappone al ‘‘body goal”, all’obiettivo di ottenere uno specifica forma fisica (per esempio cominciando una dieta) che nega la legittimità di tenersi il corpo che già si possiede, senza l’ansia di doverlo trasformare in qualcosa di più accettabile.
Sul fronte medico, stante che grassezza e obesità sono due cose diverse e che l’obesità può essere causa di una serie di patologie, è stata fortemente (e legittimamente) contestata una campagna promossa da un’associazione benefica per la ricerca e la consapevolezza del cancro nel Regno Unito, che con troppa disinvoltura metteva in stretta relazione l’obesità con la maggior possibilità di ammalarsi di tumore. Una connessione azzardata e priva di sostegno scientifico, che ha provocato violenti proteste e spinto diversi accademici delle università di Cambridge, Bristol e del King’s College a scrivere una lettera aperta all’associazione per contestare il messaggio fuorviante contenuto nella campagna.
Dopo decenni di bombardamento mediatico sugli standards del corpo femminile, dopo tonnellate di carta patinata con foto di modelle filiformi (a volte anche oltre il limite dell’anoressia), mentre i social networks danno agli odiatori seriali la possibilità di vomitare il loro disprezzo su chiunque osi rivendicare il diritto a sentirsi bene nel proprio ”corpo imperfetto”, la strada per ribaltare queste prospettive sembra ancora lunga. Ma il dibattito è cominciato e nella civiltà dell’apparenza e dell’immagine, ci si sta lentamente rendendo conto che occorre imporre un cambio di paradigma, non solo estetico, ma anche e soprattutto etico, perché in ballo c’è l’autostima, la capacità di accettarsi, il diritto alla felicità di milioni di donne, giovani o mature, che non possono e non vogliono rispecchiarsi nelle foto di corpi perfetti, ma che desiderano guardarsi allo specchio senza sentirsi in colpa, felici delle proprie rotondità, come Tracy Turnblad, la protagonista di Hairspray, assolutamente e correttamente convinta che per essere belle e attraenti, la migliore cosa da fare non è una dieta, ma imparare a sentirsi belle e desiderabili nel corpo che ci ha regalato madre natura.