L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la medicina di genere come lo studio dell’influenza delle differenze biologiche (definite dal sesso) e socio-economiche e culturali (definite dal genere) sullo stato di salute e di malattia di ogni persona.
Il corpo femminile per molto tempo è stato visto come “variante” del corpo maschile, ad esso riconducibile. Solo negli ultimi anni c’è stata una presa di coscienza globale sull’importanza di prendere in considerazione le differenze – biologiche e socio-culturali – in ambito medico, in quanto si è reso evidente come determinate patologie abbiano una diversa incidenza, sintomatologia ed esiti diversi tra uomini e donne, e come si debba quindi tenere conto di tali differenze in tutte le fasi del percorso di cura, dalla diagnosi al trattamento.
Implementare una medicina attenta al genere inteso non solo come prerogativa biologica ma anche qualità indotta da cultura e società, dovrebbe migliorare e personalizzare la diagnosi e la terapia delle malattie e ridurre così gli errori nella pratica medica.
Chiara Piccinini, laureata in medicina e in biologia, studiosa di neurofisiologia. Dirige il Centro di Rieducazione Sonico-Vibrazionale a Modena che applica l’Audiopsicofonologia del prof. A. Tomatis in contesti terapeutici e pedagogici. Ha inoltre approfondito lo studio dell’omeopatia e dell’ipnosi.
Come vivi nella tua esperienza professionale il peso delle differenze: uomini e donne, giovani e vecchi, etnie differenti, ecc.?
In realtà questo è un quesito che non mi sono mai posta come medico, perché è connaturato in me il guardare all’individuo in sé, indipendentemente da etnie, morfologia, età, eccetera.
Più facilmente nel rapporto coi colleghi e talvolta con i pazienti anziani, ho sentito come screditante e svilente il fatto di essere donna e di praticare una disciplina praticamente sconosciuta ai più e/o coperta da un alone di incredulità, Dopo vent’anni di professione, questo aspetto si è un po’ ridotto rispetto ai pazienti, rimane invece spesso rispetto ai colleghi.
Nella tua esperienza professionale quali sono le richieste e i bisogni più frequentemente manifestati dalle donne?
Occupandomi di una terapia che richiede un grosso investimento di tempo, proprio la mancanza di tempo da dedicare al proprio ben-essere è molto frequente soprattutto nelle donne.
Rispetto ai bisogni, il poco ascolto da parte di partner, famigliari, datori di lavoro è un argomento che quasi costantemente mi viene spontaneamente riferito.
Spesso i due aspetti si fondono nell’affermazione piuttosto frequente nelle donne: “non ho tempo per me”, come se l’occuparsi di sé, l’ascoltarsi, si trovasse molto in basso nella lista delle cose da fare e venisse vissuto con un’accezione egoistica.
Quali sono le principali resistenze e paure che le donne esprimono nella richiesta di essere curate?
Di nuovo di non avere il tempo per farlo. La paura che il cambiamento che la terapia vorrebbe sostenere, incoraggiare, le porti lontano dalla loro zona di comfort che permette loro di tenere su l’organizzazione e l’equilibrio familiare e lavorativo. Sono invece subito disponibili a mettersi in gioco per il benessere dei loro figli.
Le donne mostrano di apprezzare il fatto che l’operatore sanitario è donna?
Si, generalmente apprezzano di sentirsi ascoltate da una donna. Si sorprendono però di più per la capacità di ascolto profferita da un medico.
Dal tuo punto di vista, essere donna influenza il tuo approccio alla cura in rapporto alle varie età e differenze culturali?
Non so. Nel senso che la cosa che influenza di più il mio approccio alla cura credo sia il mio desiderio di ascolto dell’altro che mi chiede aiuto oltre ad una lunga esperienza come paziente a mia volta. Conosco donne incapaci di ascolto e uomini molto sensibili e aperti all’incontro dell’altro, ancor più se sofferente. Perciò non saprei se sia il mio essere donna a determinare il mio approccio o l’essere donna sia soltanto uno dei tasselli che fanno di me il terapeuta che sono.