Le malattie croniche – oltre a causare problemi fisici – influiscono sul benessere psicologico delle persone che ne soffrono.
In presenza di una malattia cronica la persona può vivere una condizione di disagio psicologico, legata anche al cambiamento nella percezione del proprio corpo come corpo “malato”.
Il genere e l’età, fattori che influenzano la percezione di sé stessi anche in assenza di patologie, possono contribuire alla minore o maggiore accettazione di se stessi e del proprio corpo.
Venere 50 ha intervistato donne e uomini di diverse età affetti da patologie croniche che ci hanno raccontato come vivono il rapporto con il proprio corpo e cosa può essere d’aiuto per accettarsi meglio.
Oggi vi presentiamo la storia di Glass Girl.
Qual è la tua malattia?
Osteogenesi imperfetta, comunemente nota come sindrome delle ossa di vetro o di cristallo.
La tua malattia influisce sul rapporto che hai con il tuo corpo e con la tua immagine?
Certamente e al di là degli aspetti funzionali e le limitazioni oggettive che la malattia comporta. Mi è servito tempo per metabolizzare una relazione visiva col mio corpo, in particolare con i segni patologici che più tendo a nascondere (una lunga cicatrice, deformità costali, una magrezza eccessiva). Ho notato che più mi sforzavo di dissimulare questi aspetti davanti agli altri, ad esempio con l’uso di abiti ampi o oversize, meno ero a mio agio nel guardarmi da sola allo specchio. Distoglievo lo sguardo da parti di me che ritenevo estranee solo perché, più di altre, incarnavano la malattia. Al contempo non riconduco questa dinamica esclusivamente al mio stato clinico e credo sia diffuso, anche per chi non ha a che fare con malattie croniche, faticare ad accettare quelli che, di volta in volta, vengono visti come difetti. Il problema nasce, semmai, quando in quel difetto finiamo per identificarci, che alla base ci sia una malattia o meno.
Pensi che il tuo essere donna o uomo influisca sull’accettazione di te stessa/o?
Essere donna mi ha in qualche modo salvato la vita. Sono fragile, debole, vulnerabile, per via della mia malattia. Ma vivo in una società che attribuisce queste caratteristiche, più o meno implicitamente, a tutto il genere femminile. Penso che per un uomo sarebbe molto più arduo convivere con una patologia simile. Non è un sofisma. Da piccola, i giochi riservati al mio genere (bambole, barbie, peluche) ben si sposavano con la tutela di un corpo fragile e a rischio di fratture per le più minime sollecitazioni. Più difficile sarebbe stato conviverci con i modelli ludici proposti al genere maschile (palloni, armi giocattolo, lotta corpo a corpo, ecc.).
Pensi che se fossi più giovane o più vecchia/o ti accetteresti di più o di meno?
Ho un rapporto ambivalente con la vecchiaia. Avendo una patologia degenerativa, non posso che temerla. Al contempo, mi attrae l’idea di riuscire a sentirmi, con gli anni, meno esclusa e diversa dagli altri. L’osteoporosi infatti, benché congenita e severissima nel mio caso, è assai diffusa nella terza età, specialmente nelle donne. In un certo senso, quindi, invecchiare mi sembra un modo per uscire dall’isolamento che una malattia rara, e non una semplice malattia, comporta. Al contrario, riconduco alla giovinezza i momenti più critici che ho vissuto nel rapporto col mio corpo, laddove troppo urgente era, all’epoca, il bisogno di sentirsi simile, accettata e amata da chi mi circondava. Riconducevo ogni rifiuto subìto alla malattia, senza appello, e senza mai contemplare l’ipotesi che potesse esserci altro ad allontanare gli altri da me (dal mio carattere, agli interessi divergenti, alla maturità non allineata). Anche in questo caso si tratta di una dinamica diffusa tra gli adolescenti, e che probabilmente avrei vissuto comunque, pur con i dovuti distinguo, se fossi stata sana.
Cosa potrebbe aiutarti o cosa ti aiuta ad accettarti di più?
Premetto che l’accettazione, per me, non è un punto di arrivo né una meta definitiva. Malati o meno che siamo, il rapporto che costruiamo con il nostro corpo è in continuo divenire. Preferisco quindi parlare di equilibrio dinamico, anziché accettazione. A livello teorico credo mi avrebbe aiutato abolire l’equazione “Più sani, più belli”, incarnata da un omonimo programma televisivo degli anni 80-90, ma ancora diffusissima e sovente oggetto di dispute (si pensi alle campagne sulle modelle anoressiche, ma anche ai risvolti più problematici della body posititvity, dove il confine tra l’amore di sé e la tolleranza di stati patologici come l’obesità diventa sfumato).
Quando guardo le mie costole sbilenche, le mie braccia smunte o la cicatrice che mi taglia il tronco a metà, non vedo solo un corpo, il mio corpo, un corpo malato. Vedo un corpo brutto. Perché mi hanno insegnato che sono i corpi sani a essere belli (quante volte diciamo “ti trovo bene”, mettendo sullo stesso piano l’aspetto di una persona e lo stato psico fisico che lo accompagna?). I corpi malati, in una retorica politicamente corretta, al massimo diventano particolari, unici, preziosi. Ma credo che la strada per uscirne non stia nell’ampliamento dei canoni della bellezza, bensì nella sua decostruzione (sogno un mondo dove avere un corpo bello o brutto sia irrilevante, sul piano sociale e relazionale, al pari del gruppo sanguigno A, B, o zero che sia).
Quale consiglio daresti a chi soffre della tua stessa malattia per migliorare il rapporto con il proprio corpo?
Consiglierei di evitare ogni logica compensativa. Sono cresciuta negli anni 80, un’epoca in cui non esistevano le cautele linguistiche di oggi, quando handicappato era una parola usata tanto a livello gergale (come insulto), che clinico. Ebbene, una delle frasi che più spesso ho sentito dire ai miei genitori, davanti agli altri e in mia presenza, era “Meglio una figlia handicappata che stupida”. Oggi può sembrare raccapricciante, ma sono franca: per anni l’ho considerato un complimento. Capire che non lo fosse affatto, e ammettere che non sarei mai stata libera finché avessi visto il corpo e la malattia come un mostro da compensare con le virtù più disparate, è stato un percorso in salita. La chiamerei “sindrome di Rain Man”, dall’omonimo film con Dustin Hoffmann, dove il protagonista, autistico, viene considerato una palla al piede solo finché non palesa le sue doti di calcolatore umano, e da lì in poi conquista l’amore e l’attenzione degli altri. A livello narrativo non credo siano stati fatti grandi passi avanti, visto che i corpi malati più rappresentati a livello mediatico sono quelli di atleti paraolimpici, geni della fisica o pianisti talentuosi. Tuttavia, raggiungere traguardi più o meno esorbitanti non è sempre un modo per affrancarsi dalla malattia, e può anzi rischiare di rafforzarla, facendola diventare l’unico asse identitario attorno al quale determinare le proprie scelte. Paradossalmente, rivendicare il diritto di essere pigri, inetti, tristi, amareggiati, ostili, se questo è ciò che sentiamo e vogliamo, diventa una sfida assai più importante.