Ha destato grande commozione e scalpore la notizia relativa alla morte di Noa Pothoven, la ragazza olandese di diciassette anni che, a causa di molestie sessuali subite a 11 e 14 anni, era caduta in uno stato di fortissima depressione.
In modo assolutamente scorretto, la stampa italiana ha parlato di morte per eutanasia, ma è doveroso sottolineare che Noa è morta in seguito alla decisione di non essere sottoposta ad alimentazione ed idratazione forzata e dunque, non per eutanasia. I suoi genitori hanno scelto di accompagnarla in questa decisione, cercando di limitare il più possibile le sofferenze provocate dalla scelta della ragazza di rifiutare qualsiasi forma di nutrizione. Ricordiamo che le autorità olandesi, di fronte a sofferenze psichiche e non fisiche prevedono la possibilità dell’eutanasia solo per persone che abbiano compiuto i 21 anni.
Per Noa, sarebbe dunque corretto parlare di una forma di suicidio assistito e di suicidio assistito, Daniela Grenzi ha parlato con con Benedetta Franceschiello, ricercatrice presso un laboratorio di neuroscienze (LINE) dell’università di Losanna e volontaria all’interno di un progetto legato alle pratiche di accompagnamento del ”fine vita”.
Benedetta, tu stai seguendo un corso di accompagnamento al fine vita in Svizzera, ci puoi raccontare di cosa si tratta?
Dal mese di marzo mi sono avvicinata a un percorso di volontariato chiamato Accompagner… la vie, sostenuto da Caritas nel cantone di Vaud, dove vivo. Caritas, con questo suo specifico programma laico e di matrice filosofica (grazie al suo coordinatore), si impegna a raccogliere volontari ai fini di assistere le persone malate terminali e voglio sottolinearlo, le persone a loro vicine. La gamma di situazioni davanti alle quali ci si può ritrovare sono le più varie: possono essere veglie in sostituzione ai familiari, possono essere veglie di persone sole, sia in ospedale o presso casa loro, possono essere finestre nelle quali si da’ semplicemente il cambio ai familiari oppure possono essere accompagnamenti a lungo termine di persone malate terminali, ma ancora sotto chemioterapia o cure palliative. Il nostro compito è quello di instaurare una relazione di ascolto con la persona, chiaramente senza proselitismi di nessun tipo e di intrecciare una relazione di presenza-ascolto con la persona che accompagniamo.
Qual è la legislatura in Svizzera riguardo al suicidio assistito?
In Svizzera il suicidio assistito è legale ed è bene distinguerlo dall’eutanasia, che invece non lo è. Il suicidio assistito è una scelta privata della persona, che deve essere pienamente lucida nel momento della scelta, deve persistere nella sua volontà di suicidarsi e deve soffrire di una malattia grave e incurabile. Il suicidio assistito viene compiuto dalla persona che si autosomministra una dose letale, sotto supervisione medica. Vi sono diverse associazioni, fra cui “Exit”, che si occupano di questo passaggio, questo perché al momento non è una pratica ospedaliera. L’intenzione è quella che lo diventi, sul medio lungo termine. L’eutanasia al contrario è considerata una pratica illegale, in quanto la morte viene somministrata da un terzo.
Stamattina in un’intervista a Radio Capital, lo psichiatra Massimo Di Giannantonio, ha detto che dobbiamo avere la consapevolezza che non solo le malattie organiche possono essere incurabili, ma che lo stesso vale, in alcuni casi, anche per quelle dell’anima. Nel percorso che stai facendo, come viene trattata la sofferenza organica rispetto a quella psichica?
All’interno del mio percorso di volontaria presso l’associazione Caritas Vaud, è molto chiaro che in “Accompagnare… la vita” ci riferiamo a manifestazioni di sofferenza fisica e il protocollo che accompagna a situazioni finali come quelle proposte da Exit deve essere chiaro in termini di sintomatologia. Se però posso attingere alle mie conoscenze in neuroscienze credo che, forse oggi più che mai, siamo a conoscenza degli effetti che la psiche ha sul corpo (e viceversa) e di come questi interagiscano in un equilibrio continuo. Sappiamo che vi sono traumi che restano impressi in aree subconsce del nostro cervello e che possono portare a forti manifestazioni di sofferenza fisica. Quando stiamo male psicologicamente, sentiamo questo dolore con il nostro corpo. Chiaramente dalla sofferenza, qualunque sia la sua causa, al divenire cronico delle sue manifestazioni (dolore fisico) c’è un ponte e un processo lungo in atto. Qualora questo processo diventasse irreversibile (conseguenze gravi e incurabili), penso che il suicidio assistito sarebbe una strada percorribile. Ma questa è solo una mia considerazione personale e comunque bisognerebbe valutare nel caso specifico.
Altra questione che pone delle riflessioni è la variabile anagrafica. Lo psichiatra Eugenio Borgna, in un’intervista a Repubblica, sostiene che a 17 anni, quando le risorse interne sono ancora forti è necessario sostenere il paziente verso una guarigione, perché ciò è ancora possibile. Cosa diversa sarebbe se il paziente avesse 50 anni. Come funziona in Svizzera rispetto alla differenza d’età?
Ogni caso è sistematicamente revisionato e analizzato secondo i tre principi che ho scritto sopra. In virtù di questo, l’età passa in secondo piano (e nel caso di minori deve essere affrontato chiaramente con la famiglia), ma purtroppo non conosco casi e situazioni da portare ad esempio. In risposta all’intervento di Borgna, i motivi per cui alcuni stati praticano il suicidio assistito, sono quelli di proteggere la dignità delle persone in momenti di estrema vulnerabilità fisica, così come fornire uno strumento contro l’accanimento terapeutico (che non dimentichiamo può verificarsi anche durante una terapia psicologica).
Benedetta, tu sei vicina alla pratica buddista e vorrei porti una domanda che riguarda l’ultimo messaggio di Noa “(…)Vi chiedo di non dissuadermi. Amare vuol dire lasciare andare”. Come ti risuona?
Forse rispondere a questa domanda in questo momento della mia vita è una delle cose più difficili che possa fare. Ma ad ogni modo, so che è vero, “Amare vuol dire lasciare andare”. L’amore non è possesso e l’attaccamento a cui determinate situazioni ci possono portare, come nel caso di una perdita, deriva dal nostro rapporto con la perdita stessa. Ma se in quei momenti ci permettiamo di lasciare risuonare la perdita e il senso di fine, se veramente riusciamo a sospendere il giudizio su di noi e sugli altri, quello che ne emerge è presenza, sostegno e compassione, nel significato latino del termine “sento con te”. Ed è una forza molto potente.
Ultima domanda: che cosa ti sta insegnando questa esperienza?
Prima di cominciare con la signora che sto seguendo in questo periodo, Marie, mi era chiaro (e in questo anche la formazione volontari con cui siamo costantemente martellati è stata preziosa) che nella mia volontà di aiutare qualcuno c’era anche un sentimento egoistico volto ad aiutare me stessa. Nel mio caso, era desiderio di conoscenza verso un tema, la morte, che la nostra società ignora tutti i giorni,salvo poi ritrovarsi completamente inadeguati e persi quando il momento arriva. La prima volta che il mio supervisore mi ha mandato da Marie, ero terrorizzata, avevo paura. La mia vita era già strapiena, non riuscivo a capire perché mi ero messa in quella situazione. Durante il nostro primo incontro però l’unica cosa che Marie mi chiese era se potevamo mangiare una volta insieme, se potevo farle un piatto di pasta e se poteva, per una volta, non mangiare da sola. La sua unica richiesta era di avere qualcuno che instaurasse con lei una relazione di presenza e ascoltoe da poter chiamare quando si sentiva triste. Questa donna, nel giro delle 3-4 volte che ci siamo viste, mi ha cambiata. Non solo ha scardinato tutti gli stereotipi cui la società ci espone, ma mi ha arricchito e continua a farlo in ogni suo gesto. Sono stata molto fortunata, perché si tratta di una donna estremamente generosa: lo è stata nella vita e lo è anche adesso che si sta preparando alla fine.
Marie mi ha insegnato che qualunque fine è un processo più o meno lungo durante il quale piccole cose, lentamente, si spengono. Mi ha insegnato che il nostro corpo e la nostra mente ci proteggono costantemente da quello che non riusciamo a sopportare. Mi ha insegnato e ricordato che ogni piccolo gesto, che nella maggior parte del nostro quotidiano ignoriamo, sono di estremo valore per chi non è più fisicamente in forza. L’ultima volta siamo uscite a prendere un caffè, e mentre ritornavo con le bevande in mano l’ho vista, in piedi, ad annusare il profumo delle rose. Quante volte ci fermiamo a sentire il profumo dei fiori? Mi ha insegnato che la nostra società commisera i malati e li porta a vergognarsi di ciò che sono diventati con la malattia, attraverso il taglio netto che abbiamo costruito attorno alla vita fino a dimenticarci di cosa è la morte, obbligandoli a vivere in solitudine da reietti e rendendo automi coloro che se ne devono occupare. Io non voglio farvi commuovere con questi racconti, ma se così fosse, so che la nostra umanità è fatta della stessa radice: sta a noi lasciarle spazio perché possa risuonare liberamente.