Violenza ostetrica. Basta tacere.
La violenza osterica consiste nell “appropriazione del corpo e dei processi riproduttivi della donna da parte dei prestatori dell’assistenza sanitaria, che si esprime in un trattamento disumano, nell’abuso di medicalizzazione di processi naturali, soprattutto per quanto riguarda la mestruazione, la gravidanza, il parto e la menopausa. Questa violenza causa la perdita di autonomia e della capacità di decidere liberamente del proprio corpo e della propria sessualità, impattando negativamente sulla qualità della vita della donna”.
Questa definizione, nella “Ley Orgánica sobre el Derecho de las Mujeres a una Vida Libre de Violencia” del Venezuela, nel 2007, Articolo 15(13), ha dato l’avvio al primo riconoscimento pubblico e giuridico della violenza ostetrica.
Con il termine violenza ostetrica ci si riferisce quindi ad ogni tipologia di abuso perpetrato nell’ambito delle cure ostetrico-ginecologiche e può essere realizzata da tutti gli operatori ed operatrici sanitarie che prestano assistenza alla donna e al neonato. Le figure professionali coinvolte sono quindi ginecologi, ostetriche e le altre figure professionali di supporto.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), a supporto del riconoscimento della violenza ostetrica, nella dichiarazione dal titolo “La prevenzione ed eliminazione dell’abuso e della mancanza di rispetto durante l’assistenza al parto presso le strutture ospedaliere”, definisce e specifica i trattamenti irrispettosi e abusanti durante il parto nelle strutture ospedaliere: l’abuso fisico diretto, la profonda umiliazione e l’abuso verbale, le procedure mediche coercitive o non acconsentite (inclusa la sterilizzazione), la mancanza di riservatezza, la carenza di un consenso realmente informato, il rifiuto di offrire un’adeguata terapia, la trascuratezza nell’assistenza al parto con complicazioni altrimenti evitabili che mettono in pericolo la vita della donna, ecc..
Sulla base di quanto definito dall’OMS, possiamo pertanto inserire a pieno titolo in questa categoria di violenza agita sulle donne anche il mancato godimento di un diritto come quello di interrompere una gravidanza indesiderata, senza per questo incorrere in un reato. In Italia però gli obiettori di coscienza cioè tutti quegli operatori e quelle operatrici che per convinzioni personali e/o religiose non accettano tale pratica, possono rifiutarsi di effettuare l’aborto o la somministrazione della “pillola del giorno dopo”.
Per questo motivo molte donne fanno fatica ad accedere ad un diritto sancito dalla legge 194 del 1978 che depenalizza l’interruzione volontaria di gravidanza e la permette in strutture pubbliche, nei primi 90 giorni di gestazione. E’ un diritto sancito solo sulla carta, considerando che nelle strutture ospedaliere vi è la quasi totalità dei ginecologi che si dichiara obiettore di coscienza, come accade in dverse regioni d’Italia. Dati del ministero della Salute dicono che negli ultimi dieci anni il numero è aumentato del 12 per cento. Nel Molise è obiettore di coscienza il 93,3% dei ginecologi, il 92,9% nella PA di Bolzano, il 90,2% in Basilicata, l’87,6% in Sicilia, l’86,1% in Puglia, l’81,8% in Campania, l’80,7% nel Lazio e in Abruzzo.
La violenza ostetrica non fa riferimento a situazioni in cui gli operatori sanitari operano deliberatamente per ferire o abusare, ma a situazioni di normalità e non emergenziali, trasformando così un evento normalmente fisiologico in un evento patologico. La violenza ostetrica avviene quando si effettuano interventi medici, chirurgici e farmacologici invasivi che non rispettano i diritti e il corpo delle donne. L’OSM ha denunciato l’aumento, soprattutto nei Paesi sviluppati, di pratiche mediche non necessarie nei parti assolutamente normali, come episiotomie, taglio cesareo, spinte sulla pancia o induzione al travaglio, per citare gli esempi più comuni.
Dunque, se la violenza ostetrica non fa riferimento a situazioni in cui gli operatori sanitari agiscono deliberatamente per ferire o abusare le donne, che a loro si sono rivolti per ottenere le cure necessarie, è conseguenza logica sostenere che l’imposizione di tali pratiche violente sono ormai standardizzate all’interno delle strutture pubbliche.
La violenza ostetrica dovrebbe pertanto essere analizzata come una conseguenza di una violenza strutturale: quella della violenza di genere. La violenza ostetrica proprio perché strutturale, è quindi normalizzata, legittimata, non normata e spesso nemmeno riconosciuta, nonostante negli ultimi decenni sia stato documentato in tutto il mondo un crescente e preoccupante aumento.
In Italia sono sempre e solo stati i collettivi femministi a farsi carico del riconoscimento e a manifestare il dissenso anche rispetto alla violenza ostetrica. Nel 1972 alcune associazioni di donne di Ferrara promossero la campagna “Basta tacere” a cui parteciparono decine di donne che raccontarono le loro storie di abusi e maltrattamenti durante il parto o la gravidanza. Alcuni di quei racconti finirono in un opuscolo che venne stampato e ristampato a mano dalle promotrici in migliaia di copie. Nell’aprile del 2016 quella campagna è stata rilanciata per iniziativa di alcune attiviste e con il sostegno di decine di associazioni. La campagna su Facebook, è stata chiamata come quella degli anni settanta, “Basta tacere” e in pochi giorni ha raccolto spontaneamente le testimonianze di migliaia di donne che hanno raccontato e descritto le loro esperienze di abusi e maltrattamenti. Da questa recente campagna è nato infine l’Osservatorio sulla Violenza Ostetrica (OVOItalia) con la finalità di raccogliere dati e storie e di rendere visibile un fenomeno poco conosciuto e riconosciuto dalle donne stesse. Su commissione dell’Osservatorio è stata condotta l’indagine nazionale Doxa “Le donne e il parto” che ha permesso di ottenere dei dati significativi.