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La locuzione di origine angolassone “revenge porn” (o anche “revenge pornography”), significa “vendetta-porno”. Il revenge porn consiste nella pubblicazione o minaccia di pubblicazione, anche a scopo di estorsione, di fotografie o video in rete, che mostrano persone impegnate in attività sessuali o ritratte in pose sessualmente esplicite. Il tutto senza l’autorizzazione o il consenso dei soggetti interessati.

 

La maggioranza delle persone vittime del revenge porn è rappresentata da donne. La pubblicazione di video e foto avviene solitamente con lo scopo di umiliare la persona coinvolta per ritorsione o vendetta. Per questo motivo, le immagini sono spesso accompagnate da sufficienti informazioni per identificare il soggetto ritratto, come i nomi o le posizioni geografiche e possono anche includere link a profili sui social media, indirizzi delle abitazioni o del posto di lavoro.

 

La condivisione di tali immagini ha conseguenze devastanti per le vittime: umiliazione, lesione della propria immagine e della propria dignità, condizionamenti nei rapporti sociali e nella ricerca di un impiego. Il revenge porn può essere paragonato, in termini di danno psicologico, ad una vera e propria violenza sessuale. Il fenomeno, purtroppo, ha visto una crescita esponenziale negli ultimi anni anche in Italia, dove questi episodi hanno talvolta assunto contorni drammatici, provocando il suicidio delle vittime, esasperate dalla situazione.
Il fenomeno è sempre quella della violenza maschile sulle donne. La cronaca ha dimostrato come a perpetrare il ricatto sessuale siano soprattutto uomini legati alla vittima da un rapporto sentimentale (coniugi, compagni, fidanzati), che agiscono in seguito alla fine di una relazione per “punire”, umiliare o provare a controllare gli ex facendo uso delle immagini o dei video in loro possesso. In Italia la storia si ripete: la violenza agita dal maschile, lascia spesso, troppo spesso, il femminile impossibilitato a tutelarsi e a proteggersi.

 

 

A cavallo del 2015-2016 paesi come l’Australia, la Germania, Israele, il Canada, il Regno Unito, e più di metà degli Stati Uniti hanno disciplinato il reato di Revenge Porn. In Italia fino a pochi giorni fa, non esistevano norme specifiche a tutela delle vittime. La Camera, solo il 2 aprile 2019, ha approvato un emendamento che prevede fino a sei anni di carcere e f 15mila euro di multa. Il testo recita: «Chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e la multa da 5mila a 15mila euro». Quindi tutti coloro che fino al 2 aprile 2019, in Italia hanno commesso il reato di “revenge porn” potevano essere accusati, a seconda dei casi, di molestia, violazione della privacy, diffamazione e in alcuni casi particolarmente gravi, anche di istigazione al suicidio. Non esistevano norme ad hoc e questa mancanza legislativa non solo non permetteva l’individuazione con maggiore precisione dei soggetti che commettono questo tipo di reato e i relativi responsabili della diffusione, ma aspetto ben più grave, mancava ogni forma di tutela e garanzia per la vittima di interventi veloci, efficaci e necessari per togliere, nel minor tempo possibile, le immagini diffuse nella rete rete.

 

La “vendetta porno” aveva quindi due facce. La prima consisteva nel ritrovarsi violate nella sfera intima e vedere la propria immagine diffondersi in maniera “virale” senza averlo mai concesso ed autorizzato. La seconda, determinata dal buco legislativo, consisteva nell’impossibilità di poter eliminare dal web, in tempi brevi, lo strumento di violenza.
Ora il pensiero va a Tiziana Cantone, giovane donna napoletana i cui video hard avevano iniziato a circolare ovunque, diffondendosi con quella incontrollabile “viralità” a cui i social ci hanno tristemente abituati. Una vicenda che, nonostante la battaglia legale intrapresa a difesa del proprio diritto all’oblio, si è conclusa con il suicidio della vittima.

 

Per Teresa Giglio mamma di Tiziana, il voto del 2 aprile sul revenge porn rappresenta una vittoria personale. Dopo aver a lungo cercato di far ritirare dalla Rete alcuni suoi video intimi diffusi prima attraverso le chat di WhatsApp e poi finiti su decine di siti a luci rosse. Da quel giorno Teresa non ha fatto altro che cercare di ridare dignità a sua figlia e adesso sente che i suoi sforzi hanno portato a qualcosa di importante. «Oggi per me è un giorno speciale. Il destino mi ha portato via ciò che di più prezioso avevo e finalmente la mia battaglia ha un riconoscimento». Teresa ha aggiunto che il suo impegno va oltre la tragedia personale che ha vissuto: «Ci sono tante ragazze che vanno aiutate, perché finiscono vittime di questa nuova forma di femminicidio che è la violenza attraverso il web. E credo che da tempo le istituzioni avrebbero dovuto muoversi per varare una legge adeguata, ma purtroppo in passato altri governi non si sono dati da fare, evidentemente questa non era una loro priorità, ne avevano altre».

 

Ora per lei, però, la battaglia non è finita: resta da ottenere il riconoscimento del diritto all’oblio e riuscire a far sparire da quei siti porno che ancora dal 2016 non le hanno cancellate, le immagini di Tiziana che l’hanno portata al suicidio.