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A Venere50 interessa osservare la società anche attraverso occhi artificiali, ossia attraverso gli occhi delle macchine. (di Daniela Grenzi)

 

Abbiamo iniziato questa perlustrazione riportando alla ribalta Ananova, la prima giornalista virtuale della storia, apparsa al nostro mondo, cinquant’anni fa.
In quegli anni era in atto una vera e propria rivoluzione informatica, da lì a poco sarebbero esplose le reti digitali e la la multimedialità; la visione del mondo sembrava privilegiare il concetto di rete e di interdipendenza. I fermenti culturali dell’epoca mescolavano tendenze new age, movimenti neo pagani, cultori della “Grande Dea”, promesse libertarie delle nuove tecnologie.

 

«Lo stadio più evoluto delle Terra si raggiungerà grazie al cablaggio del mondo intero», decretava D. Rushoff, esponente di spicco della cybercultura del tempo, ipotizzando addirittura il raggiungimento di un’autocoscienza del pianeta ad opera delle reti digitali.
E’ a questo immaginario che associamo la nascita della prima assistente virtuale, Ananova, da molti studiosi letto come un tributo a Gaia, antico nome della dea creatrice, adorata per migliaia di anni come colei che dà e sostiene la vita, simbolo dell’unità di ogni forma di vita sulla terra.

 

Le parole chiave quindi erano interconnessione/unione/interdipendenza; sotto questi auspici, sembrano comparire le prime forme di intelligenza virtuale.
E a cinquant’anni di distanza cosa osserviamo?
Lo scenario sembra completamente diverso dalle ipotesi di unione, condivisione, interdipendenza immaginate negli anni sessanta.
Le cronache nel ultimi tempi riportano notizie di aggressioni verso i robot.
A San Francisco, ad esempio, un poliziotto robot è stato brutalmente picchiato e la stessa sorte è successa a un suo ‘collega’ a Mosca. E ancora, ci viene riportato che a Osaka un gruppo di bambini ha picchiato Robovie-II, un commesso virtuale ingaggiato in diversi centri commerciali giapponesi.
Si tratta di fenomeni di bullismo verso gli androidi; comportamenti che stanno catalizzando l’attenzione di scienziati come Merkel Keijsers, dell’Università di Canterbury, in Nuova Zelanda.
Lo studioso riporta, attraverso diversi studi, il massiccio processo di antropomorfizzazione avvenuto nei confronti delle macchine.

 

Potremmo dire che se agli esordi dell’intelligenza artificiale l’immaginario faceva riferimento al divino, al mito, al magico, oggi il riferimento è all’umano nei suo risvolti più primitivi, meno differenziati, molto lontani dal divino.
Sono fenomeni psicologici ancora poco studiati, di enorme interesse per capire come funzioniamo e come potremmo funzionare in un domani a contatto con i ‘fratelli robot’.
Keijsers ci parla di un fenomeno psicologico nuovo, secondo cui le nostre emozioni positive verso i robot, aumentano in proporzione alla loro somiglianza all’uomo, fino a un punto oltre il quale questa somiglianza comincia a suscitarci angoscia e repulsione. Il nostro cervello, ad esempio, si allarma davanti a una bocca che non sa parlare o che non lo fa come noi: è la cosiddetta uncanny valley, la zona perturbante.

 

Sempre Keijsers ci spiega che il fenomeno dell’antropomorfizzazione, rispetto all’aggressività, sembra ripercorrere le stesse dinamiche interspecifiche sapiens-sapiens.
Nei fenomeni di violenza, ad esempio, l’aggressore tende a disumanizzare la vittima per sentirsi meno in colpa e questo avviene anche con le macchine.
I meccanismi sono davvero complessi e ancora tutti da studiare: e allora, in questo scenario ambivalente, un pensiero va a Samantha, la sex robot, molestata fino ad essere distrutta, durante una fiera hi-tech in Austria.