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“Cosa succede se picchi una donna alla fermata dell’autobus?” è il titolo di un video in rete, facilmente accessibile a tutti. Il titolo è una domanda, la risposta a questa domanda è: niente. Niente di niente.

 

Il video mostra una coppia di giovani attori, fermi ad una fermata dell’autobus, in una affollata città italiana. Il ragazzo insulta, denigra, spintona, schiaffeggia e tira i cappelli alla ragazza. La ragazza lo supplica di smettere, piange e chiede aiuto. Intorno a loro si fa il vuoto per quattro lunghissime ore. Gli sguardi attoniti della gente che assiste passivamente diventano poi occhi bassi di sguardi indifferenti e passi veloci per allontanarsi.

 

Numerosissime sono le donne vittime di violenza che mi riferiscono di essere state picchiate in pubblico o avere chiesto aiuto ai vicini di casa. Il risultato sempre quello. E accade sempre, tutti i giorni.

 

Ma perché è importante non rimanere ciechi e sordi alla violenza ?
Vi ricorderete di Sara Di Pietrantonio di 23 anni che il 28 maggio del 2016, a Roma, venne strangolata e data alle fiamme da Vincenzo Paduano. Sara chiese aiuto mentre tentava di sfuggire alla furia dell’ex fidanzato, ma nessuno si fermò. Secondo quanto ricostruito in base alle immagini delle telecamere di videosorveglianza che hanno inquadrato il luogo del delitto, almeno due auto sono passate prima che Sara fosse uccisa; la ragazza ha chiesto aiuto invano, senza che i conducenti si fermassero. Se qualcuno si fosse fermato, oggi Sara sarebbe viva.

 

Intervenire si può e si deve. Intervenire chiamando le autorità, le forze dell’ordine o le associazioni significa evitare che accada il peggio. Non farlo, significa diventare co-responsabili della violenza agita.

 

La violenza di genere non è un fatto privato. Questa frase non è uno slogan. La violenza è ideologica in un sistema sociale nel quale il potere degli uomini sulle donne non si fonda su norme o leggi ma su altri meccanismi più sottili, meno espliciti, basati su tradizioni e arretratezze culturali come lo stereotipo di genere, la riprovazione sociale, la vittimizzazione secondaria, i canoni di bellezza. Ed infine la legittimazione e la normalizzazione del fenomeno si compiono soprattutto attraverso il silenzio e l’indifferenza dei vicini di casa e dei passanti per strada. La violenza non riguarda così solo certe donne, riguarda tutte le donne, nessuna esclusa.

 

La violenza non è un fatto privato perché è la manifestazione ultima, delle disparità e delle discriminazioni storiche nei rapporti uomo/donna. A livello globale la violenza di genere è strutturale, è parte integrante del sistema sociale e Il microcosmo delle relazioni intime diventa il continuum di un conflitto di genere che attraversa e pervade tutte le relazioni uomo/donna nella nostra società, in famiglia e nel lavoro e che ha la sua matrice nella legittimazione sociale di una differenza discriminatoria tra i due generi.La violenza non è una questione di “panni sporchi da lavare in casa”. Ognuno di noi può fare qualcosa.

 

Mettersi dalla parte del carnefice rappresenta una grande tentazione. Tutto quello che il carnefice chiede è che il testimone non faccia niente. Fa così appello al desiderio universale di non vedere il male, di non sentirne parlare, di non parlarne. La vittima chiede al testimone di condividere il peso della sua sofferenza; domanda azione, impegno e ricordo. Per sfuggire alla responsabilità dei suoi delitti, il carnefice fa qualsiasi cosa sia in suo potere per promuovere l’oblio. Il segreto e il silenzio rappresentano la sua prima linea di difesa. Se il testimone è isolato, gli argomenti del carnefice sono irresistibili, senza un contesto sociale che sostenga le vittime, il testimone finisce per soccombere alla tentazione di guardare dall’altra parte. “Judith Herman