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Sono tantissime le donne che ci raccontano le loro esperienze, le difficoltà, ma anche i successi in una società in cui uomini e donne posseggono gli stessi diritti, ma non le stesse opportunità, non solo in famiglia, ma anche nel lavoro e nella vita sociale. Venere50 ha scelto alcune di loro ed ad ognuna di esse ha chiesto di raccontare la loro storia.
Questa settimana Paola Vigarani ha incontrato Isabella Meninno, 49 anni, insegnante e atelierista.

 

Cosa deve possedere, secondo te,  una donna  anche in termini di risorse personali, per decidere di denunciare il proprio ex partner con comportamento violento?

 

Una donna che decide di denunciare è prima di tutto una donna che è arrivata al termine di una lunga fase dolorosa in cui ha tentato e immaginato ogni strada possibile per poterlo evitare. Ha immaginato, ipotizzato, ha tentato di prevedere ogni futuro possibile, ha barattato notti e ore di riposo, ha pianto in solitudine o travestito i pianti in pubblico, ha ripetuto mille volte le stesse domande all’avvocato proprio per cercare una soluzione che le permettesse di non arrivare a quello che le sembrava la cosa più violenta, crudele, vendicativa, inammissibile, ingestibile, tremenda azione di denunciare.
Ed è proprio quando concepisce che la denuncia è quasi l’unica possibilità di salvezza, prima della fuga o della depressione, lei si accorge di possedere una vita, un pensiero, una dignità. Così, tra il desiderio di salvezza, la speranza di essere creduta, la possibilità di immaginare un nuovo futuro per sé e per i figli, percepisce anche la sensazione di viverlo come un gesto politico, un gesto di disobbedienza civile, per il quale ci si sente in dovere di alzarsi e ammettere. Perché solo così facendo, attraverso una denuncia che diventa gesto simbolico, una donna può liberarsi di qualcosa che appartiene solo a lei, facendola diventare di tutti. Il mio uomo, violentando me, ha violentato tutti voi. Sappiatelo. Cosa deve possedere una donna che denuncia? La consapevolezza e il desiderio che questo salverà lei e tutte le altre donne, prima (rileggendo le fatiche di tante con la verità dell’oggi) e dopo, perché ha messo un mattone in un luogo in cui non c’era nulla. Non per ultimo, il desiderio di non essere partecipe di quello che  stava accadendo ai figli.
Io non voglio contribuire col mio silenzio alla sua violenza. Ma vi devo avvisare che da ora la responsabilità è anche vostra.

 

Che impatto emotivo ha avuto per te il percorso legale?

 

Credo di essere stata la peggior cliente che un avvocato potesse avere. La giustizia si basa sui fatti e vi cerca una verifica attraverso prove, date, accadimenti e testimonianze. Per presentarmi alle udienze ho dovuto fare un lavoro enorme con la mia avvocata, per rimettere insieme i pezzi di una memoria che volevo cancellare e che lei mi costringeva ad estrarre. Lo facevo, un pezzo per volta. Frammenti che narrati mi sembravano rinvigorire e riprendere nuovamente il sopravvento su di me, come azioni concrete, costringendomi ad una riscrittura continua degli accadimenti della mia memoria; ogni volta il racconto che facevo penetrava di più nel mio dolore e ogni volta questo dolore resuscitava invece che perdere forza.
Io volevo cercare un senso alle cose accadute, ma il tribunale non era il luogo deputato a questo. La pazienza, la e il rispetto totale del mio dolore da parte delle mie avvocate mi ha permesso di arrivare in fondo, ma non senza errori. All’aula del tribunale, alla sua atmosfera, ai colori, ai silenzi e alle attese non mi sono mai abituata.
Un fermo immagine che purtroppo mai dimenticherò è stato vedere i miei anziani genitori salire quei pochi gradini pubblici per essere ascoltati come testimoni, timorosi esausti e pieni d’amore che assocerò per sempre al loro coraggioso modo di amarmi. La violenza è un domino di dolore, che attraversa e si ripercuote  su una famiglia intera e anche più in là.
Volevo che si fidassero di me quando i testimoni del mio ex compagno mi descrivevano con parole volgari, dure e violente, senza aver mai potuto vedere quello che accadeva in casa. Mi facevano sentire sporca e bugiarda. Raccontavano e mi guardavano negli occhi, senza paura, senza incertezze, come un insulto pubblico. Nessun dubbio per loroLoro non avevano nessun dubbio, la colpevole ero io. In fondo, l’amicizia è anche questo, pensavo…

 

Che idea hai maturato a seguito della tua esperienza del perché le donne in Italia non denunciano o denunciano poco?

 

Penso che le ragioni siano tante, molto diverse tra loro e tutte dolorose da accettare. Penso che non tutti siano in grado di valutare questi silenzi, queste non azioni, che a volte nascondono molto ma molto più coraggio di una denuncia. A volte una denuncia è una scelta rischiosa per sé e per i figli, se un uomo vede una donna ribellarsi.
La violenza domestica solitamente non ha testimoni (se non quando purtroppo sono coinvolti i figli) e per questo il lieto fine di una denuncia non è garantito. La scelta di denunciare è un investimento ‘fisico’ e psicologico che potrebbe fallire, perché quello che sembra un semplice rapporto di causa-effetto – se tu fai violenza su di me, di conseguenza sarai punito – non è sempre così lineare, limpido e facile da dimostrare in un’aula di un tribunale. Un procedimento penale necessita di molti elementi concreti, non basta il bagaglio della sofferenza che una donna porta sul viso, nella voce, nel respiro, anche se a volte la sofferenza delle testimonianze è così percepibile, così vera e onesta, da far calare nell’aula un profondo silenzio. Questa è l’empatia che può produrre la verità e questo è il suo valore.
Sono molto stanca di pensare che nel 2019, questa azione politica e civile, sia ancora un’azione che vede la donna denunciare con coraggio per vedersi processata subito dopo.

 

A seguito della denuncia fatta che cosa è accaduto?

 

C’è stato un tempo di lavoro con la mia avvocata Barbara, che ha accettato di seguirmi con la formula del patrocinio gratuito e con la quale abbiamo dovuto lavorare, attraverso la scrittura, alla ricostruzione di tutti gli avvenimenti che si erano verificati nell’arco di alcuni anni. Da lì lei ha proceduto per scrivere i capi di imputazione, fino all’attesa del primo incontro davanti al giudice. Purtroppo il mio processo è ancora in corso. Siamo quasi allo scadere del settimo anno e saremmo vicini alla prescrizione. Una serie di sfortunate cause legate alle procedure dei tribunali come ritardi, scioperi, slittamenti e in ultimo il trasferimento e cambio del giudice in corso di processo, hanno fatto si che per più volte ci siamo presentate in tribunale per poi tornare a casa. E a queste si sono poi aggiunti anche ritardi e posticipi, legati ad avvenimenti che riguardavano problematiche di salute delle persone coinvolte.
A febbraio potrebbe finalmente concludersi questo percorso con l’incarico dato ad un nuovo giudice che dovrà leggere tutte le trascrizioni stenografiche dei vari appelli e avviare la discussione finale prima della sentenza. Confido di poter chiudere questo capitolo della mia vita, sigillare il cerchio dentro di me, con la mia famiglia e mio figlio e avviarmi verso un futuro che non mi sembra ancora di poter sognare.
Le querele mi hanno dato la possibilità di fare capire al mio ex che ora la questione era pubblica e che qualsiasi cosa avesse fatto ne avrebbe dovuto rispondere davanti ad un tribunale. Questo ha funzionato e noi abbiamo ricominciato a respirare seppur non senza ansia. E’ un regalo che ho vinto insieme a questa storia

 

Hai avuto  difficoltà e/o disagi hai subito in seguito alla tua esperienza riconducibili alla tua età, che non avresti incontrato se fossi stata più giovane per esempio?

 

Non saprei dirlo con esattezza. Prima di tutto Credo che non si possa affrontare una cosa così grande e dolorosa senza una rete di persone a sostegno. Giovani o meno giovani. La scelta di ancorare la mia salvezza alla famiglia, a te e al gruppo di donne che come me avevano subito violenza, mi ha permesso di capire e leggere a fondo quello che avevo vissuto. Come donna e adulta con un figlio, che deve continuare a frequentare il padre, ho dovuto congelare parte delle mie possibilità lavorative che erano ben allenate e pronte, grazie alla maturità e che avevo conquistato con molto amore. Non tutti hanno la fortuna di trovare il lavoro che più si addice alla propria anima e alle proprie doti, ma io ero stata fortunata. Ad un certo punto però non potevo più reggere la complessità che avevo davanti e ho dovuto fare delle scelte riducendo le ore di lavoro. Smettendo di viaggiare ed esser sempre aggiornata, presente e disponibile, tutto è diventato più difficile: non è possibile fare affidamento solo all’esperienza in un tempo in cui i contesti gli strumenti e le filosofie del presente cambiano così rapidamente.
Quella storia d’amore ha cambiato profondamente le linee del presente e del futuro che rimane.
È un po’ questo congelamento che mi fa battere i denti con un po’ di rimpianti, anche se credo ai miracoli.

 

Ti sei pentita delle querele fatte?

 

No. Ho alternato però molti sentimenti. Ho avuto tanta paura, ho provato un forte senso di disagio, mi sentivo una donna disabile. Ho provato un grande senso di colpa. ho avuto paura delle sue ripercussioni su nostro figlio, paura della sua rabbia che aumentava, paura delle parole che sono seguite, delle minacce silenziose che sembravano maledizioni per il futuro. Paura di non ottenere la sua condanna, perché la sua vittoria significherebbe un altra dichiarazione di guerra.