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Sono tantissime le donne che ci raccontano le loro esperienze, le difficoltà, ma anche i successi in una società in cui uomini e donne posseggono gli stessi diritti, ma non le stesse opportunità, non solo in famiglia, ma anche nel lavoro e nella vita sociale. Venere50 ha scelto alcune di loro ed ad ognuna di esse ha chiesto di raccontare la loro storia.
Questa settimana Paola Vigarani ha incontrato Barbara Bergonzini, 46 anni, socia di un negozio di abbigliamento.

 

Barbara hai subito violenza nella relazione d’intimità a 40 anni, come è potuto accadere ?L’età e l’esperienza non ti hanno permesso di cogliere i famosi “campanelli d’allarme”?

 

Purtroppo si. Vivere la violenza psicologica, economica e fisica è stato per me devastante. A 40 anni ho conosciuto un uomo che mi ha corteggiata, spacciandosi per un uomo che non era e che non era mai stato. Mi sono innamorata di lui, ho fatto progetti di vita con lui, ho avuto un figlio da lui. La violenza è cominciata velocemente, prima quella psicologica poi quella fisica ed infine quella economica e sessuale. Ho perso in pochissimi mesi ogni equilibrio, ho perso tutto. Mi guardavo allo specchio e non mi riconoscevo più, spesso mi sentivo come un puzzle lanciato in aria, mi sentivo di avere perso tutti pezzi di me e non sapevo da dove iniziare per rimetterli insieme. Lui mi ha fatto terra bruciata intorno, mi ha isolata da tutto e tutti e sono rimasta sempre più sola.

 

Ti è accaduto di non essere ascoltata e creduta, hai subito svalutazione o minimizzazione e peggio ancora hai subito un processo di colpevolizzazione?

 

Più di una volta. Già all’inizio della relazione con questo uomo dal comportamento violento, avevo tentato di chiedere aiuto e mi era stato suggerito di “anticipare la scintilla”, cioè avrei dovuto essere io ad andarmene da casa mia, dopo avere intuito la pericolosità della situazione. Il risultato è stato che per diverse notti, in pieno inverno, ho preferito dormire in auto. Ma non è servito a niente…la scintilla scattava sempre e comunque. Pochi mesi dopo ho perso anche il lavoro per causa sua. A quel punto avevo pensato che nessuno fosse in grado di capirmi e che non sarei mai più riuscita ad uscire da questa relazione tossica. In pratica ero rimasta ancora più sola ed isolata. Ho avuto più tempo per rimanere con lui, che mi ha ingabbiato in un senso di inadeguatezza e vergogna. Aveva ricamato intorno a me, giorno dopo giorno una ragnatela che mi stava soffocando, fatta di isolamento, manipolazione e denigrazione. Sentendo che non avevo via di scampo, mi sono lasciata andare e ho iniziatoa credere sempre di più alle sue parole: ho chiuso le porte, tutto accadeva in quella casa e dentro di me. E’ stato così che è iniziata la violenza più pesante, quella che sei viva solo per miracolo: tentato strangolamento, calci, pugni, sputi in faccia, coltelli alla gola erano diventati trattamenti quotidiani.

 

Cosa ti è accaduto a seguito dell’isolamento dalla rete familiare e amicale agito da lui?

 

Da lì a diventare completamente succube di lui il passo è stato breve. Sapeva che non avrei chiesto aiuto, perché non avevo più nessuno con cui parlare e così è iniziata la fase dagli insulti, degli sputi , degli schiaffi , dei calci, delle spinte, dei pugni, delle sue mani strette attorno al mio collo o del coltello puntato sotto alla mia gola. Nessuna via di scampo, ero in gabbia. Volevo morire. Speravo di avere un incidente mentre guidavo una di quelle notti, sola al volante. Lui il mio grande amore era diventato il mio torturatore e il mio aguzzino.

 

La vittimizzazione secondaria viene agita anche da donne, a volte madri, amiche. Ti è accaduto?

 

Inizialmente no perché ho cercato di tenere tutto nascosto al resto del mondo ma mi sentivo in ogni caso giudicata da tutti. Camminavo per strada a testa bassa, mi vergognavo, avevo la sensazione di sentire la gente parlare quando mi passavano accanto e sentivo la voce di mia madre che tenevo all’oscuro di tutti. Oblio. Lei aveva dei sospetti e giudicava la situazione. Come biasimarla. Cercavo di non addolorarla, cercavo di non dirle per non farla morire di dolore. Ero sull’orlo dell’abisso e avevo scoperto di essere incinta. Avevo 40 anni, non avevo più un soldo e un lavoro e il mio compagno era un pazzo-violento……

 

Anche una singola parola, una frase sbagliata detta in un determinato momento, può cambiare in negativo l’ epilogo del provare a chiedere aiuto per attuare il cambiamento verso la salvezza. Come hai fatto per uscire da questa relazione?

 

Venivo criticata e giudicata da donne a me vicine. Mi ricordo la mia fragilità, bastava veramente niente per annientarmi. Ho desiderato morire, ho pensato anche a come morire e quando anche mia madre mi ha detto cose devastanti e rabbiose contro di lui, mi sono sentita sbriciolare. Ma sapere di essere incinta, ad un certo punto mi ha fatto sentire viva. Dovevo proteggere il figlio che stava crescendo dentro di me, ho chiesto aiuto alle persone giuste e ci siamo lasciati. Non è stato facile. E’ stato un duro lavoro, un resettare il cervello. Mio figlio mi ha salvata e io ho salvato lui. Penso che la mia non più così giovane età mi abbia in qualche modo aiutato a metabolizzare meglio il vissuto e a reagire nel chiedere aiuto. Subire violenza e vittimizzazione secondaria a venti/trent’anni mi avrebbe sicuramente uccisa. Se fossi stata più giovane, il giudizio mi avrebbe scalfito ancora di più l’anima e il cuore e lasciato cicatrici ancora più profonde di quelle che già non erano. Oggi so che sono una donna come tutte le altre. Lo ero anche mentre venivo picchiata e denigrata dal mio compagno. Può capitare a qualsiasi donna, di qualsiasi età, estrazione sociale e culturale. Nessuna è esente.
Il giudizio sociale è stato come ritrovarsi di nuovo vittima, ancora e nuovamente ancora, come sale sulla ferita aperta e sanguinante.